[In collaborazione con gli amici di www.nerdevil.it !] Ci sono voluti ben 52 anni (la prima apparizione del personaggio risale al 1966) affinché il primo supereroe di colore riuscisse ad avere una sua versione cinematografica, ma finalmente questo 2018 ha portato con sé il film interamente dedicato a Pantera Nera (o meglio T’Challa, Re e protettore del Wakanda), il 18° cinecomic targato Marvel Studios. A dire il vero la sua storia ha avuto inizio in Captain America: Civil War, dove abbiamo visto per la prima volta -in abiti civili e non- l’allora principe insieme al padre, caduto sotto le esplosioni di un attentato a Vienna. Ora però è tempo di tornare a casa, nella madre Africa, dove l’erede al trono si appresta ad essere incoronato come nuovo sovrano. Dopo Luke Cage, il black power di casa Marvel passa dal piccolo al grande schermo, ma le differenze tra i due non potrebbero essere più grandi: non ci troviamo a New York, ad Harlem, non c’è nessuna rivalsa sociale, e non c’è il ghetto, ma un intero popolo. Black Panther catapulta lo spettatore in un nuovo mondo, un regno nascosto, un’ambientazione del tutto inedita che già di per se rappresenta una sfiziosa novità nel Marvel Cinematic Universe; un luogo terrestre e non cosmico, dove antiche tradizioni e modernità si fondono e convivono all’unisono creando un connubio tanto insolito quanto affascinante. Tutto perfettamente accompagnato da musiche anch’esse figlie del nuovo e vecchio black style con paesaggi mozzafiato a completare il quadro. È quasi paradossale di questi tempi (specie in Italia) assistere ad una storia dove sia l’etnia di colore a voler rimanere separata dall’Occidente, ma d’altronde se c’è il vibranio di mezzo…. Difficile non affezionarsi subito alla stragrande maggioranza dei comprimari della pellicola, tra cui spiccano la giovane sorella del protagonista Shuri (cervellona a livelli che “Tony Stark levati”), la guerriera Okoie (la Michonne di The Walking Dead), la ex di turno Nakia (interpretata dal Premio Oscar Lupita Nyong’o), fino ad arrivare al personaggio interpretato da Michael B. Jordan, Killmonger, il villain della storia. Non sempre un gran bel cast (al quale vanno aggiunti altri nome del calibro di Forest Whitaker, Martin Freeman, Daniel Kaluuya e Angela Bassett) è sinonimo di successo, ma uno dei valori di Black Panther è senz’altro quello di aver saputo valorizzare ognuno dei suoi interpreti tanto quanto basta per farceli rimanere impressi nella memoria. Per il resto si può tranquillamente affermare che il film diretto da Ryan Coogler (già regista dell’ottimo Creed) segua una sceneggiatura semplice, senza particolari fronzoli e con i giusti colpi di scena, che narra la storia di una grande famiglia, dove le colpe dei padri potrebbero ricadere sui figli, un dramma familiare che sembra ricordare addirittura Il Re Leone. Questa volta però non c’è un invidioso e viscido Zio Scar, ma un Killmonger col quale non è poi tanto difficile empatizzare, e comprendere quindi cosa lo spinge ad agire in un certo modo (certamente discutibile). Michael B. Jordan prosegue l’ultima felice tendenza in casa Marvel di valorizzare anche i propri cattivi (uno su tutti l’Avvoltoio di Michael Keaton), regalando una performance senza sbavature, che sbatte in faccia allo spettatore tutto il rancore e la rabbia del suo personaggio. Dopo il disastroso Fantastic Four del 2015 (dove ha interpretato la Torcia Umana), l’attore si è preso una gran bella rivincita nell’ambito dei cinecomic, riuscendo in più di qualche frangente a rubare la scena al protagonista Chadwick Boseman, che paradossalmente risulta più accattivante nella sua prima apparizione che non nel qui (forse la sua ottima interpretazione nel 2016 ha portato troppo in alto le aspettative). Nota di merito anche per Martin Freeman, che nei panni dell’agente CIA Everett Ross ricopre a sorpresa un ruolo piuttosto importante. È ormai impossibile che le vicende di questo immenso universo cinematografico non si interconnettano l’una all’altra, ma il film, nonostante i dovuti collegamenti con gli altri capitoli, è uno di quelli che maggiormente potrebbe vivere di vita propria. Black Panther è senz’altro uno dei film più maturi del MCU, in cui non c’è spazio per la comicità ai limiti del demenziale vista in Thor: Ragnarok, ma al massimo momenti più “leggeri”, che non spezzano affatto la profondità della storia; si sorride ma non si ride, e va senz’altro bene così. Bello, spontaneo e divertente il rapporto fratello-sorella tra T’Challa e la principessina Shuri. Ovviamente non manca l’azione, con sequenze adrenaliniche e sempre spettacolari che raggiungono il culmine con la grande battaglia finale (e mi fermo qui per non svelare troppo). Nella pellicola l’azione non è preponderante, ma non passa affatto inosservata. Il regista ha saputo ben dosare l’equilibrio tra l’azione e sequenze più lente, dialogate e riflessive (da non intendere assolutamente come “noiose”). Macroscopicamente questo primo film Marvel del 2018 non presenta particolari difetti: certo, la CGI di Black Panther restituisce un po’ un “effetto videogame” non eccezionale, simile a quello dello Spider-Man di Tom Holland, ma il costume tecnologicamente anti-tutto del Re Wakandiano è magnifico e quindi questo particolare tende a passare in secondo piano. Black Panther è un film canonico, semplice ma non banale, che nella sua “normalità” ha il merito perlomeno di fornire un’ambientazione inedita, visivamente d’impatto, oltre a personaggi ben scritti. Non è di certo il capolavoro che ci hanno descritto oltreoceano, ma d’altronde le opinioni su ogni nuovo cinecomic sembrano non avere mezze misure, e ogni volta si sente parlare solo di “capolavoro” o “cagata pazzesca” (abbiamo anche pubblicato un articolo sull’argomento). Una cosa però è sicura: la Marvel ancora una volta ha fatto centro, senza troppi sforzi e facendo quello che le riesce meglio. Black Panther è un film meravigliosamente modesto, una pellicola che non entusiasma a livelli incredibili, ma certamente permette di lasciare la sala soddisfatti. E ottiene questo risultato di per sé, senza doversi poggiare molto sulle 2 scene post-credits, anch’esse piuttosto “normali”, ma attorno alle quali ruota giustamente molta curiosità, visto l’arrivo imminente dell’attesissimo Avengers: Infinity War che vedrà entrare in azione il titano pazzo Thanos. [In basso il trailer del film anche in HD!]
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Devo ammetterlo, non avevo mai visto nulla prima d'ora con Wagner Moura (no, ovviamente neanche Narcos), ma dopo aver visto l'interpretazione del protagonista di The Man From the Future non mi sono affatto sorpreso, leggendo informazioni sul film, di essermi trovato di fronte uno dei migliori attori brasiliani in circolazione. La pellicola in questione, disponibile su Netflix, è di genere fantascientifico e racconta le avventure di un ricercatore della facoltà di fisica presso un'università al lavoro su un acceleratore di particelle che si ritroverà catapultato 20 anni nel passato in una serata che lo cambiò per sempre, al cospetto del se stesso più giovane e della ragazza che sarebbe potuta essere la donna della sua vita. Il protagonista è Joao, detto “Zero” (Wagner Moura), una sorta di brutta copia del Bruce Banner interpretato da Mark Ruffalo, infelice e frustrato; la sua storia è narrata in maniera piuttosto chiara soprattutto nei primi 40 minuti attraverso abili flashback, e permette subito di empatizzare col personaggio, rendendo comprensibile quel suo lato isterico che in primo luogo potrebbe sembrare un po' troppo accentuato. La bella del film, suo amore perduto, è Helena (Alinne Moraes), personaggio che conosciamo quasi solo esclusivamente attraverso la love story col protagonista; non il massimo, ma tanto basta per affezionarci anche a lei e al suo bel “visino”. The Man From the Future mette in scena un soggetto non originalissimo nel suo genere, ma riesce nell'impresa di non risultare banale e di non rendere affatto così prevedibili gli sviluppi della trama; forse potrei non essermi espresso bene: alla fin fine (ma è troppo facile parlare a posteriori) la svolgimento risulta Sì analogo ad altre pellicole-i patiti del genere sapranno a cosa mi riferisco- ma la sensazione che si ha durante la visione è che possa veramente succedere di tutto, e permette allo spettatore di fantasticare su quelli che potrebbero essere i risvolti della storia. Su alcuni siti The Man From the Future viene addirittura classificato come commedia-fantascientifica... ma non è esattamente così: senza dubbio si distacca molto dal tono serioso di pellicole come Predestination e Timecrimes, ma la sottile vena ironica del film non stona affatto con il decorso della storia. Le battute ed i siparietti comici non sono fastidiosi, piuttosto risultano coerenti nel contesto degli eventi, ma più che altro il fatto che la pellicola abbia adottato un tono più leggero non significa che la pellicola non si prenda sul serio. The Man From the Future fornisce anche dei piccoli spunti di riflessione, Sì, sono i tipici dei viaggi nel tempo, ma per fortuna non “puzzano” di già visto; merito di questo va ad una recitazione piuttosto credibile del cast, un montaggio non banale, effetti speciali discreti e probabilmente anche al già citato isolito tono leggero. Nota di merito inoltre, per alcuni momenti topici della storia accompagnati da Creep dei Radiohead... mai scelta fu più azzeccata. The Man From the Future è stato senz'altro una bella sorpresa, un bel regalo fattoci da Netflix; insomma, un gioiellino assolutamente da non perdere per gli appassionati del genere, ma più che altro un film consigliabile proprio a tutti, che si lascia guardare con insolita curiosità...e col sorriso stampato in faccia. Un lavoro proprio niente male per lo sceneggiatore e regista Claudio Torres. (in basso, il trailer in lingua originale della pellicola!) Alla fine Iron Fist lo vedrete. Ve lo vedrete a prescindere da ciò che avrete letto qui e lì su internet, ve lo vedrete perché questa cosa dei Defenders vi intriga e non potete arrivare impreparati all’appuntamento, oramai imminente. Ve lo vedrete perché c’è stato un momento, un momento che collocherei tra la prima e la seconda stagione di Daredevil, in cui l’intreccio targato Marvel ha veramente alzato oltremisura l’asticella delle aspettative, facendoci pensare di essere dinanzi ad un capolavoro in divenire. Iron Fist, però, non è una grande serie, inutile girarci troppo intorno. Premessa: non sono un fedelissimo Marvel. Sono uno di quelli che sì, si vedono qualcosa ogni tanto, sì, è fatto bene, sì, ok, ma non è che vado a leggermi i fumetti e a rispettare con rigore l’ordine cronologico dei vari X-Men o Avengers di turno. Questa premessa è necessaria perché i fan “a prescindere” ridimensioneranno ogni critica che mi appresto a fare, un po’ per amore cieco, un po’ perché tanto ogni incongruenza o lacuna di un prodotto Marvel la andranno a colmare e a giustificare con “eh, nel fumetto ti fa vedere che…” Il punto di forza del quartetto di serie Marvel che ci viene proposto da Netflix dovrebbe essere proprio questo: offrire un prodotto complesso, sfaccettato ma coerente ed auto-esplicante. Se le cose vengono fatte per bene io, spettatore-medio, capisco ed apprezzo ogni cosa senza dover andare a sfogliare l’immensa enciclopedia Marvel per ottenere chiarezza. Ma veniamo alla storia che ci viene proposta. Iron Fist racconta la vicenda di Danny Rand (Finn Jones), piccolo rampollo di una famiglia multimilionaria che possiede una multinazionale dalle risorse illimitate (chiamata, come è ovvio, “Rand”), gestendo la stessa in tandem con la famiglia Meachum. Tra il piccolo rampollo destinato a ricchezza senza limiti e il Danny Rand che ci viene presentato nella prima puntata della stagione (scalzo, sporco e con un sorriso abbastanza da ebete) intercorrono 15 anni di vuoto (che tale rimarrà, ahimé). Questo perché Danny, quando era ancora un bambino, è rimasto vittima di un incidente aereo avvenuto per cause ignote mentre il jet di famiglia sorvolava le montagne dell’Himalaya. Mentre i suoi genitori perdono la vita, Danny viene soccorso da due monaci tibetani, che lo conducono a K’un-Lun (…un villaggio?) e lo addestrano affinché egli possa combattere La Mano. Nel corso del suo annoso tirocinio presso i monaci guerrieri, Danny diviene l’Iron Fist (come? Perché?), una sorta di guerriero dei guerrieri, di eletto, di entità divina. Ma cosa può fare l’Iron Fist? Il suo potere, derivante dal suo “Chi” (eh?), consiste in una sorta di pugno dalla consistenza dell’acciaio e dalla forza incredibile. Va detto che, dopo aver visto il buon Luke Cage affrontare eserciti e tonnellate di piombo uscendosene giusto con qualche maglietta bucherellata, il “superpotere” dell’Iron Fist appare alquanto fiacco e poco caratterizzante, ma vabbè. Già muovo la mia prima critica: come posso appassionarmi alla storia di un personaggio, se nei suoi flashback tutto ciò che vedo è il momento in cui il jet precipita (una volta, due volte, tre, abbiamo capito, ma dopo 15 anni questo ragazzo non pensa ad altro?), o al limite qualche seduta meditativa sul pizzo di una montagna? Cos’è “K’un-Lun”? Perché La Mano vuole attaccarla? Perché l’Iron Fist ha modo di “nascere” solo in quel posto? Perché Danny è sopravvissuto? Esiste realmente il “drago” di cui ad un certo punto si parla? Che si intende quando viene detto che “il passaggio per K’un-Lun è aperto”? A tutte queste domande non riceverete alcuna risposta nel corso delle 13 puntate di questa stagione. Nessuna, zero, nada. Forse questo alone di mistero ha un qualche motivo che non mi è dato conoscere, ma quello che so è che questa prima stagione aveva proprio il compito di introdurmi il personaggio principale, mentre su quei quindici anni di addestramento non c’è alcun approfondimento, anzi, lo stesso personaggio sembra rimuovere in fretta una vita di addestramento quando alle prime provocazioni del villain di turno inizia a dare di matto e a perdere il controllo. Comunque, tornando alla trama, il problema che per primo Danny si trova ad affrontare ritornando a New York è quello di dover convincere qualcuno del fatto che lui sia davvero lui, dato che, come è chiaro, tutti lo danno per morto. Farà quindi i salti mortali per convincere i suoi “fratellastri” Ward e Joy circa la sua sincerità, trovando ostacoli soprattutto per causa di Ward, che dopo la morte di Harold Meachum (padre di Ward e Joy e socio originario del padre di Danny) è il “ragazzo d’oro” che tiene le redini della floridissima multinazionale e teme un ritorno al timone della famiglia Rand. Ward (Tom Pelphrey) è probabilmente il personaggio migliore della serie: elegante, cinico, astuto ma al contempo infantile e nevrotico, regge bene il ruolo di villain nella prima parte di stagione, per poi essere rimpiazzato da altri (ne ho contanti almeno altri 3) nel ruolo di cattivo principale. Purtroppo, andando avanti, lo stesso Ward degraderà a personaggio secondario e diventerà anch’egli un personaggio alquanto monocorde ed elementare nella caratterizzazione. Già, perché personalmente è questo quello che meno mi è piaciuto di questa serie: la caratterizzazione dei personaggi. Sono tutti, davvero senza eccezioni, monodimensionali, stereotipati, o buoni o cattivi. Abbiamo, quindi, i buoni a prescindere (Danny, Colleen, Joy, Claire) e i cattivi incorreggibili (Ward, Gao e gli altri non posso svelarveli), e le evoluzioni in questo senso saranno praticamente nulle. Danny è stato il protagonista Marvel/Netflix con cui ho empatizzato meno: piatto, sempliciotto, umorale, infantile, in tredici puntate praticamente riesce solo ad oscillare tra i due poli, uno positivo, che lo fa essere virtuoso e non gli fa mai avere il minimo dubbio (“devo sconfiggere la Mano!”), l’altro, negativo, che lo fa essere rabbioso e piuttosto stupido e prevedibile (“chi ha ucciso mamma e papà?”). Colleen Wing (Jessica Henwick), l’umile ragazza asiatica che gestisce un dojo e che per prima dà ospitalità ed aiuto a Danny, è il perfetto alterego di quest’ultimo: ingenua, pura, animata da buoni sentimenti, ci metterà però giusto il tempo di qualche minuto per rinnegare l’educazione che per anni ed anni ha ricevuto, il tutto in nome dell’amore e della prevedibilità. Joy Meachum (interpretata dalla bella Jessica Stroup), altra figura femminile di spicco, è invece divisa tra sentimentalismo e cinismo, tra fiducia e diffidenza, tra valori nobili e bieco arrivismo, ragion per cui ora appare essere la “buona” di casa Meachum, ora invece la sua esponente più emblematica. Quello che però attraversa Joy non è un dualismo ben articolato, sottile e credibile: no, semplicemente questo personaggio cambia da un momento all’altro, va ad intermittenza, si comporta all’opposto di come ti aspetteresti ogni volta che credi di averlo finalmente inquadrato. L’esempio più lampante di ciò, lo vedrete, si rinviene nell’ultima scena della serie. Quanto a Claire Temple (Rosario Dawson), il collante di tutti i Defenders, anche lei è stata travolta dalla frettolosa caratterizzazione dei personaggi in Iron Fist: i suoi connotati tipici, ricorrenti tanto in Luke Cage quanto in Daredevil e Jessica Jones, qui arrivano all’estremo, diventano qui quasi macchiettistici, esasperati e poco credibili (mi viene in mente, ad esempio, la tendenza alla battuta sagace nei momenti di massima tensione, o l’atteggiamento rassegnato di chi, tanto, le ha viste tutte). Il personaggio più emblematico della caratterizzazione rozza dei personaggi di questa serie è, in ogni caso, il grottesco Davos: proprio quando ti aspetti un guerriero solido, risoluto, intelligente e carismatico, ecco che ti ritrovi un ragazzino complessato e fondamentalmente stupido, che ripete come un pappagallo le cose che gli sono state inculcate. Ma hai 30 anni, caro mio, datti una svegliata e conosci il mondo! Dal quadro catastrofico che ho appena tratteggiato voglio però escludere Jeri Hogarth (la Carrie-Anne Moss di matrixiana memoria), che riesce ad essere sé stessa anche qui, anche se stona il fatto che un personaggio così cinico e materialista sia il primo a dar credito a Danny Rand circa la sua identità (mentre Joy ha dovuto aspettare un pacchetto di M&M’s per riconoscere l’amichetto con cui è cresciuta). Elencati i difetti, occorre però anche capire cosa spinge a chiudere un occhio e ad andare avanti nella visione di questa serie: la mia risposta è “La Mano”, cioè quest’entità malefica che già ci ha tenuti incollati allo schermo in Daredevil e che ogni volta ci fa immaginare chissà quale risvolto geniale ed appassionante per ciò che stiamo vedendo. La Mano vuol dire anche Madame Gao, personaggio a sua volta magnetico, inquietante ed affascinante al contempo. Tutte le puntate in cui La Mano muove le fila della storia sono, in effetti, godibili ed accattivanti, non fosse altro, ripeto, per quell’aspettativa che si crea nello spettatore di venire a conoscenza di chissà quale nuovo dettaglio su questa organizzazione oscura e tentacolare che sembra controllare il mondo. Notevole è anche lo spazio dedicato ai combattimenti, probabilmente il più efficace che si sia visto finora tra le serie Marvel (anche se non è che la fisicità di Finn Jones, con quei boccoli colorati da colpi di sole, quei muscoli appena accennati e quel tattoo posticcio sul petto, sia particolarmente pertinente col kung-fu et similia). Poteva essere sfruttato ed approfondito meglio il tema combattimenti illegali, che per un paio di puntate vede protagonista Colleen e che risulta avvincente per quel sottobosco di personaggi spregevoli e per quelle ambientazioni alla Tekken. Le musiche che si sentono in questa serie sono di ottimo livello ed anche la fotografia lo è per buona parte della serie, anche se potrebbe essere mal digerito quella computer grafica posticcia e surreale utilizzata per tutte le scene ambientate tra le montagne cinesi. La qualità della recitazione, invece, non è degna di nota, anzi (come forse si è intuito) la prova fornita da Finn Jones nei panni di Danny è stata tutt’altro che convincente: poche espressioni usate ed abusate, come ad esempio il sorriso da bonaccione-piacione sfoggiato ogni qualvolta sta per dire una cosa dolce, o il volto corrugato con sopracciglia inarcate di quando sta per scoppiare di rabbia. Bravo, come detto, Tom Pelphrey, tutto sommato credibile anche David Wenham (meglio non dire quale personaggio interpreta...), senza infamia né lode sia la prova di Jessica Jenwick che quella di Jessica Stroup. E’ quindi così brutto, Iron Fist? No, ma è ampiamente il più debole dei capitoli introduttivi ai Defenders, per tutti i motivi esposti in precedenza. Non potendosi dilungare sulle evoluzioni della trama (onde evitare spoiler per chi non ancora avesse intrapreso la visione di Iron Fist) ci si è soffermati su quelli che sono i punti deboli della serie, perché tanto, si sa, alla fine la vedrete lo stesso. Quindi questo è Iron Fist: “ho letto che non é il massimo, mi rendo conto che qualcosa manca ma, al diavolo, me lo vedo!”. rece by Il Merlo (in basso il trailer della serie, anche in HD!) La seconda stagione di questo piccolo cult targato Sam Esmail era molto attesa, ma mantenere le aspettative era tutt’altro che facile. Più facile crearne di nuove. La storia, per chi non avesse ancora visionato le prime dieci puntate del 2015, è incentrata sulla magnetica figura di Elliot Alderson (Rami Malek), hacker capace di tutto con un computer tra le mani ma del tutto inadatto a vivere nel mondo reale, affetto come è da paranoie e (tossico)dipendenze varie. Il giovane Elliot, nella prima serie, veniva coinvolto dal misterioso “Mr. Robot” (interpretato sapientemente da Chris Slater) in un progetto rivoluzionario (la F-society) volto a mettere in ginocchio le banche ed i potenti del mondo attraverso una tastiera ed un prompt. Senza soffermarsi troppo sui colpi di scena e sul finale della prima stagione (chi l’ha vista non vorrà leggere l’ennesima recensione, chi non l’ha vista lo facesse perché ne vale la pena), era interessante capire che sviluppo fosse stato congegnato da Esmail e soci per dare un prosieguo degno ad una serie che, in realtà, da un certo punto di vista poteva anche essere perfetta ed auto-concludente. Già, perché il punto è questo: la prima stagione ha sviscerato nel profondo la figura del protagonista, le sue paranoie, la sua follia, fino a toccare il proprio culmine nell’ultima puntata, in cui lo spettatore ha finalmente avuto un quadro completo di Elliot Alderson, ma al contempo ha tenuto incollati allo schermo per capire come potesse andare il progetto visionario della F-society. Ma cosa rimaneva nelle mani degli sceneggiatori per continuare, per un’altra stagione, sugli stessi livelli? Il plot principale è senz’altro accattivante, nel farci vedere cosa ne è stato dell’attacco informatico di cui ci siamo appassionati nella prima serie, nel suo approfondire ancora una volta i torbidi affari della E-Corp (che sembra sempre più l’epicentro di tutti i mali del mondo) e soprattutto nel presentarci gradualmente il mondo occulto del Dark Army (a tal proposito, inquietante ma al contempo entusiasmante è la figura di WhiteRose (BD Wong) , personaggio senza connotati definiti, già apparso in precedenza, ma che sembra meritare un ruolo di assoluto protagonista nella stagione che verrà). Detto in soldoni, però, tutto quello che poteva infiammare della trama principale è stato già abbondantemente svelato nella prima serie, per cui il tentativo di stupire è, sotto questo punto di vista, in parte fallito. Allora spazio ai protagonisti, che in queste nuove dodici puntate sono stati psicanalizzati per bene. Elliot, in realtà, si faceva già psicanalizzare nella prima stagione, ma in questa seconda appare definitivamente fuori di testa, prigioniero di sé stesso, incerto, confuso e chi più ne ha più ne metta. Allora ancora chapeau per Rami Malek, rende benissimo tutto questo e sembra davvero nato per questo ruolo. Mr-Chris Slate-Robot è – dopo le rivelazioni dell’ultima puntata della prima serie – diventato un po’ monocorde, ricompare come il prezzemolo ogni volta che la trama rallenta un po’ e francamente tutta la tiritera del suo rapporto con Elliot stanca un po’. Sotto questo punto di vista probabilmente è stata calcata un po’ troppo la mano, e va bene che Slater è anche produttore della serie, ma forse era il caso di circoscrivere un po’ le sue entrate in scena. Manca molto Tyrell Wellick (Martin Wallstrom), figura di assoluto primo piano nella prima serie, ma che qui aleggia tutto il tempo come un fantasma senza (quasi) mai manifestarsi, relegato, di fatto, ad un ruolo irrilevante ed esclusivamente funzionale a procedere della trama; il vuoto da lui lasciato sarà colmato in parte dalla moglie Joanna (la bella Stephanie Corneliussen), che si mostra tanto perfida quanto fragile. Nota di merito per il vero personaggio nuovo di questa stagione, ossia l’agente dell’FBI Dominique Di Pierro (Grace Grummer): il suo ironico cinismo, la sua solitudine consapevole, il suo ruolo rigoroso portato avanti sempre con meno convinzione la rendono una figura sfaccettata, interessante ed a tratti divertente. Completano il ventaglio di personaggi Darlene (Carly Chaikin), spalla di secondo piano del ben più carismatico Elliot, e l’insopportabile Angela Moss, interpretata credo piuttosto facilmente da Portia Doubleday, dal momento che per tutte le sue apparizioni saranno servite due o tre espressioni facciali (al massimo) che oscillano tra l’intontito e lo spaventato a morte. Tirando le somme, si può dire che anche questa seconda stagione crea un fortissimo hype puntata dopo puntata, dopo un pilot non esaltante né particolarmente ritmato; hype che cresce, cresce, cresce e…beh, qui viene la nota negativa: più che rafforzare l’indubbia forza visiva ed emotiva che connotava la prima stagione, stavolta sembra che si sia messa a cuocere troppa carne al fuoco, senza arrivare però ad un vero punto. Ci sono colpi di scena notevoli, ma al contempo un po’ truffaldini, dal momento che allungano il brodo oltre il necessario (discorso riferito soprattutto alla prima metà della serie) e vengono spesi ogni qualvolta la trama sembra un po’ accartosciarsi su sé stessa. E una cosa un po’ spaventa: sembra che ciò che verrà sarà più finalizzato all’ennesimo shock dello spettatore che ad uno sviluppo coerente e definitivo della storia. Ma vale la pena affrontare questa seconda stagione, un po’ perché dopo aver visto la prima non se ne può fare a meno, un po’ perché in ogni caso Mr Robot rimane ai massimi livelli per fotografia, musiche ed autentici colpi di genio stilistici (eccezionale la sesta puntata, in buona parte girata in perfetto stile sit-com americana anni ’80). Che dire, speriamo che il regista ed ideatore Sam Esmail sappia tenere salde in pungo le sorti del giovane hacker rivoluzionario e non si faccia prendere troppo la mano nel futuro. rece by Il Merlo (in basso, il trailer della seconda stagione, anche in HD!) Partiamo da un semplice presupposto: non sono MAI stato un appassionato di Superman, dei 4 film con lo sfortunato Christopher Reeve ne ho visti solo 2, se non erro (e non mi hanno entusiasmato chissà quanto, checchè ne dica la critica) e il reboot con Brandon Routh ha sfidato la mia resistenza al sonno, nonostante la presenza del grande Kevin Spacey e la mano di Bryan Singer ... che con i mutanti Marvel riesce molto di più. Inoltre non ho MAI letto fumetti DC, quindi capirete perchè mi sono avvicinato tardivamente alla visione di questo film e con molti dubbi (ma anche pregiudizi) a riguardo.
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Gennaio 2019
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