[In collaborazione con gli amici di www.nerdevil.it !] Non è mai facile parlare in maniera neutrale ed asettica di Rocky o di qualsiasi cosa ad esso collegata, invece è semplicissimo se lo si fa col cuore, con lo stesso linguaggio col quale Sylvester Stallone ci ha raccontato la “sua” storia in questi ultimi 40 anni. È semplicissimo se lo si ama, ed è molto difficile che chi stia leggendo, magari dopo aver già visto Creed II, non abbia amato questo pezzo di storia del cinema. Chi insinua pigramente (a volte per sentito dire) che il primo Creed sia una copia del primo Rocky, azzardando di conseguenza un paragone tra questo sequel e Rocky IV, non solo non ha mai capito lo spirito della saga creata da Stallone, ma forse neanche il cinema in sé. [In collaborazione con gli amici di www.nerdevil.it !] Detto ciò, ecco che ritroviamo un Adonis Creed maturo, con Bianca e lo “zio” Rocky sempre al suo fianco, pronto a diventare campione del mondo. Sarebbe il massimo, se non fosse per il ritorno di quelfantasma del passato (non solo del suo), che si fa vivo a muso duro proprio all’apice della sua carriera, e non a caso. Sapete tutti di chi si sta parlando: quel gigante russo chiamato Ivan Drago, che stavolta getterà nella mischia il figlio Viktor (se possibile, ancor più possente del padre) per creare scompiglio nella “famiglia” Creed-Balboa. Troppo facile dopo 30 anni creare il solito effetto nostalgia al ripalesarsi sullo schermo del più celebre ed iconico degli avversari storici di Rocky, difficile renderlo credibile e scevro da banalità, ma ancora una volta il franchise si dimostra maturo e coerente. Si potrebbe dire che nulla è cambiato, ma allo stesso tempo tutto è diverso: come già detto sono trascorsi più di 30 anni, l’Unione Sovietica non esiste più e la Russia non appare fredda e tetra come in passato. Nessuna metafora sulla Guerra Fredda stavolta, ma solo la sete di vendetta di un uomo che ha serbato rancore da quando venne sconfitto a Mosca davanti al suo pubblico e perse tutto, moglie compresa. Ivan carica tutti questi sentimenti e le speranze di rivalsa su Viktor, che dagli sguardi che rivolge al padre sembra quasi volergli dire “Perché io? Cosa c’entro?”, ma va avanti per la sua strada proprio per l’affetto che nutre per quell’uomo che l’ha cresciuto da solo, nell’odio e nella vergogna. Proprio come successe al suo genitore, anche Viktor Drago risulta essere (volutamente) un burattino “costruito” a dovere, i cui fili sono mossi proprio dalle mani del padre, ma con grande sorpresa potremo scoprire che anche Ivan il terribile ha un cuore ed è maturato, saggiamente memore di ciò che accadde a lui. Dopo tutti questi anni si è riusciti a dare una certa profondità anche al personaggio interpretato dall’inossidabile Dolph Lundgren, nonostante non manchino quei momenti in cui risulterà inevitabilmente detestabile. All’angolo opposto del ring, invece, i personaggi risultano maggiormente approfonditi, con una loro naturale evoluzione, e il tutto è reso ancor meglio dalla chimica che li unisce (presente sin dal primo capitolo), che genera nuovi spunti di riflessione. Michael B. Jordan si conferma un buonissimo attore, fortemente espressivo nel suo dolore, nella sua rabbia, e ormai completamente immedesimato nella parte; per Sly parla ormai la sua storia, soprattutto quella inerente all’intera saga, senz’altro la sua migliore creazione. Ormai lui è Rocky, lo è sempre stato: quando si rivolge ad Adonis in realtà è lui che parla ai giovani, e quando scrive determinati dialoghi per il suo personaggio è lui che parla a sé stesso. Questa volta dietro la macchina da presa non troviamo più Ryan Coogler, ma il giovane Steven Caple Jr. che fortunatamente non fa rimpiangere il suo predecessore. Creed II infatti non tradisce lo spirito del precedente capitolo, tantomeno quello di tutta la saga. Come già detto è tutto cambiato: nel mondo, a Philadelphia, nella boxe, ma lo spirito e i valori sono quelli di sempre; c’è la famiglia (di Rocky, di Adonis, di Drago), c’è la rivalsa sociale, il riscatto personale… sarò esagerato, ma in questi film c’è la vita di tutti, storie di persone e famiglie dove in fondo la boxe è solo un affresco che fa da sfondo a tutto il resto. Nonostante l’iniziale ed inevitabile sensazione di già visto, Sylvester Stallone (c’è lui dietro la sceneggiatura) riesce ancora una volta a creare nuove dinamiche che rendono Creed II “diverso”, sia dal suo predecessore che da Rocky IV, diverso come lo sono tutte le 8 pellicole della saga. Certo, ovviamente non mancano i rimandi e le strizzate d’occhio al passato, ma in ogni film c’è qualcosa che li unisce in maniera viscerale, così come ci sono tante piccole differenze e sfumature che li rendono unici. Tanto per puntualizzare, se mai ce ne fosse bisogno, il film non ha davvero nulla a che fare con il quarto capitolo del 1985: gli sguardi di fuoco tra Rocky e Drago sono rimasti gli stessi, ma la pellicola non presenta similitudini né nella trama, né nello schema narrativo, né altro, anzi, riprende per alcuni versi un altro tassello della saga, ma meglio non dirlo per evitare spoiler. Così come la saga si è naturalmente evoluta, stesso analogo discorso è valido per le musiche, sulle quali vale la pena spendere qualche parola. Il celebre tema principale è ormai stato spodestato da quello del nuovo protagonista, ma non mancano certamente rimandi e variazioni, mai forzati, mai inutili, sempre ben contestualizzati (e galvanizzanti). Inoltre il fatto che Bianca (Tessa Thompson), la compagna del protagonista, sia nel film una cantante, è utile per fornire ancor di più una propria identità a questi sequel/spin-off. Creed II è senz’altro ciò che tutti i fan aspettavano ed ameranno, ma il suo pregio più grande è quello di riuscire a soddisfare sia i fan nati negli anni ’70, sia i millennials: perché? Perché quando un lavoro viene fatto con cognizione di causa, con esperienza e soprattutto (sarò banale) col cuore, e si hanno in mano personaggi ed interpreti di un certo calibro, è quasi impossibile non realizzare un ottimo lavoro; un lavoro che non ha nulla da invidiare al suo predecessore se non l’effetto novità (ed è molto). Da super fan della saga (se non ancora si fosse capito), nonostante il desiderio di vedere nuovi film analoghi fino alla fine dei miei giorni, nutro la speranza che questo possa essere l’ultimo capitolo, ed il motivo è molto semplice: Creed II chiude splendidamente, in 2 scorrevolissime ore, tutti i cerchi narrativi, dando una fine dignitosa, un punto d’arrivo e di maturazione a tutti i personaggi, soprattutto a Stallone. Sì, proprio al settantaduenne Sly, perché forse anche il vecchio Balboa ha bisogno di un ultimo, piccolo, ma fondamentale atto per maturare ancora e chiudere la sua storia come merita. P.S. Lo so, non ho parlato di scontri e botte (che ovviamente ci sono e mi hanno fatto letteralmente sudare in sala) ma, come ho già accennato, per me Rocky e Creed sono amore, passione, dolore, sofferenza, famiglia: sono vita… la boxe viene dopo. [In basso, il trailer del film in HD!]
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Non sono necessarie più di 2 ore per narrare la storia di un’invasione aliena, o meglio, sarebbero anche necessarie, ma riuscire a farlo (bene) in 20 minuti è sinonimo di competenza. Neill Blomkamp non è nuovo nel realizzare cortometraggi (District 9 e Chappie stessi sono basati su suoi corti) ma soprattutto non è affatto nuovo alla fantascienza: tutte le sue opere si muovono all’interno di questo genere potenzialmente dai mille risvolti. Dopo la non bellissima ultima esperienza proprio di Chappie (2015), apprezzato dai più ma commercialmente (che è quello che oggi veramente conta) un mezzo flop, il giovane regista SudAfricano ha deciso di ripartire dal “basso”, creando la propria casa di produzione cinematografica e producendo dei corti; pieno controllo creativo, idee e tecniche sperimentali al servizio della fantascienza. Il primo frutto di questa affascinante iniziativa è Rakka, reso disponibile gratuitamente dal 16 giugno. La Terra è stata conquistata, gli uomini sono resi schiavi e sottoposti a terribili esperimenti, e i dominatori intossicano il nostro mondo per renderlo simile al loro; solo poche sacche di resistenza riescono di rado a difendersi e a contrattaccare, mantenendo viva una flebile speranza per il genere umano. Esiste un modo per poter capovolgere tutto? Tutto molto semplice, tutto già sentito, ma tutto realizzato con criterio ed ispirazione. La voce narrante di Sigourney Weaver (seguìta dalla solita impeccabile prova recitativa) introduce lo spettatore alla realtà di questa Terra che non ci appartiene più, controllata da creature aliene dal design simil-rettiliano senza scrupoli (strizzata d’occhio ai Visitors o ai complottisti?). Fotografia torbida, quasi sbiadita, sequenze di montaggio maiuscole, tanta (forse anche un po’ troppa) slow-motion ed effetti visivi talmente ben realizzati da far invidia a moltissimi prodotti -di dubbia qualità- che popolano il grande schermo. Questa è la visione futuristica e fantascientifica gia notà del regista: una Terra sporca, arida, polverosa, dove gli uomini ancora, nonostante tutto, non riescono ad essere uniti tra di loro, ma dove si intravede sempre e comunque un barlume di speranza. Lo stile di Neill Blomkamp è totalmente identificabile in questo primo cortometraggio, uno stile che ricorda molto il primo, bellissimo District 9 (quando ancora non sentiva il peso delle major), uno stile purtroppo leggermente scemato nelle 2 successive pellicole, che in questo caso torna ad essere ancor più crudo, senza timore di far vedere sangue e brandelli di carne volanti, ma con una sua eleganza visiva di grande impatto. Rakka racchiude in 20 minuti quello che probabilmente molti altri avrebbero espresso (magari anche male) attraverso un lungometraggio; sorprende, appassiona e attraverso un finale emotivamente in crescendo, riesce abilmente a far intendere quelle che potrebbero essere le sorti della storia…ma non senza lasciare lo spettatore con una incredibile voglia di vedere ancora altro, molto altro...ancora ed ancora! Se ciò che si è visto era classificabile come "esperimento", allora non è difficile affermare che sia perfettamente riuscito. (In basso il video di "Rakka", disponibile su youtube.) La seconda stagione di questo piccolo cult targato Sam Esmail era molto attesa, ma mantenere le aspettative era tutt’altro che facile. Più facile crearne di nuove. La storia, per chi non avesse ancora visionato le prime dieci puntate del 2015, è incentrata sulla magnetica figura di Elliot Alderson (Rami Malek), hacker capace di tutto con un computer tra le mani ma del tutto inadatto a vivere nel mondo reale, affetto come è da paranoie e (tossico)dipendenze varie. Il giovane Elliot, nella prima serie, veniva coinvolto dal misterioso “Mr. Robot” (interpretato sapientemente da Chris Slater) in un progetto rivoluzionario (la F-society) volto a mettere in ginocchio le banche ed i potenti del mondo attraverso una tastiera ed un prompt. Senza soffermarsi troppo sui colpi di scena e sul finale della prima stagione (chi l’ha vista non vorrà leggere l’ennesima recensione, chi non l’ha vista lo facesse perché ne vale la pena), era interessante capire che sviluppo fosse stato congegnato da Esmail e soci per dare un prosieguo degno ad una serie che, in realtà, da un certo punto di vista poteva anche essere perfetta ed auto-concludente. Già, perché il punto è questo: la prima stagione ha sviscerato nel profondo la figura del protagonista, le sue paranoie, la sua follia, fino a toccare il proprio culmine nell’ultima puntata, in cui lo spettatore ha finalmente avuto un quadro completo di Elliot Alderson, ma al contempo ha tenuto incollati allo schermo per capire come potesse andare il progetto visionario della F-society. Ma cosa rimaneva nelle mani degli sceneggiatori per continuare, per un’altra stagione, sugli stessi livelli? Il plot principale è senz’altro accattivante, nel farci vedere cosa ne è stato dell’attacco informatico di cui ci siamo appassionati nella prima serie, nel suo approfondire ancora una volta i torbidi affari della E-Corp (che sembra sempre più l’epicentro di tutti i mali del mondo) e soprattutto nel presentarci gradualmente il mondo occulto del Dark Army (a tal proposito, inquietante ma al contempo entusiasmante è la figura di WhiteRose (BD Wong) , personaggio senza connotati definiti, già apparso in precedenza, ma che sembra meritare un ruolo di assoluto protagonista nella stagione che verrà). Detto in soldoni, però, tutto quello che poteva infiammare della trama principale è stato già abbondantemente svelato nella prima serie, per cui il tentativo di stupire è, sotto questo punto di vista, in parte fallito. Allora spazio ai protagonisti, che in queste nuove dodici puntate sono stati psicanalizzati per bene. Elliot, in realtà, si faceva già psicanalizzare nella prima stagione, ma in questa seconda appare definitivamente fuori di testa, prigioniero di sé stesso, incerto, confuso e chi più ne ha più ne metta. Allora ancora chapeau per Rami Malek, rende benissimo tutto questo e sembra davvero nato per questo ruolo. Mr-Chris Slate-Robot è – dopo le rivelazioni dell’ultima puntata della prima serie – diventato un po’ monocorde, ricompare come il prezzemolo ogni volta che la trama rallenta un po’ e francamente tutta la tiritera del suo rapporto con Elliot stanca un po’. Sotto questo punto di vista probabilmente è stata calcata un po’ troppo la mano, e va bene che Slater è anche produttore della serie, ma forse era il caso di circoscrivere un po’ le sue entrate in scena. Manca molto Tyrell Wellick (Martin Wallstrom), figura di assoluto primo piano nella prima serie, ma che qui aleggia tutto il tempo come un fantasma senza (quasi) mai manifestarsi, relegato, di fatto, ad un ruolo irrilevante ed esclusivamente funzionale a procedere della trama; il vuoto da lui lasciato sarà colmato in parte dalla moglie Joanna (la bella Stephanie Corneliussen), che si mostra tanto perfida quanto fragile. Nota di merito per il vero personaggio nuovo di questa stagione, ossia l’agente dell’FBI Dominique Di Pierro (Grace Grummer): il suo ironico cinismo, la sua solitudine consapevole, il suo ruolo rigoroso portato avanti sempre con meno convinzione la rendono una figura sfaccettata, interessante ed a tratti divertente. Completano il ventaglio di personaggi Darlene (Carly Chaikin), spalla di secondo piano del ben più carismatico Elliot, e l’insopportabile Angela Moss, interpretata credo piuttosto facilmente da Portia Doubleday, dal momento che per tutte le sue apparizioni saranno servite due o tre espressioni facciali (al massimo) che oscillano tra l’intontito e lo spaventato a morte. Tirando le somme, si può dire che anche questa seconda stagione crea un fortissimo hype puntata dopo puntata, dopo un pilot non esaltante né particolarmente ritmato; hype che cresce, cresce, cresce e…beh, qui viene la nota negativa: più che rafforzare l’indubbia forza visiva ed emotiva che connotava la prima stagione, stavolta sembra che si sia messa a cuocere troppa carne al fuoco, senza arrivare però ad un vero punto. Ci sono colpi di scena notevoli, ma al contempo un po’ truffaldini, dal momento che allungano il brodo oltre il necessario (discorso riferito soprattutto alla prima metà della serie) e vengono spesi ogni qualvolta la trama sembra un po’ accartosciarsi su sé stessa. E una cosa un po’ spaventa: sembra che ciò che verrà sarà più finalizzato all’ennesimo shock dello spettatore che ad uno sviluppo coerente e definitivo della storia. Ma vale la pena affrontare questa seconda stagione, un po’ perché dopo aver visto la prima non se ne può fare a meno, un po’ perché in ogni caso Mr Robot rimane ai massimi livelli per fotografia, musiche ed autentici colpi di genio stilistici (eccezionale la sesta puntata, in buona parte girata in perfetto stile sit-com americana anni ’80). Che dire, speriamo che il regista ed ideatore Sam Esmail sappia tenere salde in pungo le sorti del giovane hacker rivoluzionario e non si faccia prendere troppo la mano nel futuro. rece by Il Merlo (in basso, il trailer della seconda stagione, anche in HD!) Presentato in concorso al Festival di Cannes 2016, La ragazza senza nome è l'ultima fatica dei fratelli Dardenne, registi di origine belga. In uscita giovedi 27 ottobre nelle sale italiane, la pellicola narra le vicende di Jenny (Adele Henel) una giovane e stimata dottoressa ad un passo dal suo sogno di ricoprire un ruolo di rilievo in un prestigioso ospedale, che nel frattempo conduce il suo lavoro in un ambulatorio affiancata dallo stagista Julien. Una sera qualcuno suona al citofono, ma lei decide di non aprire in quanto gia passata un'ora dall'orario di chiusura dello studio; destino vuole che la polizia locale il giorno dopo le chieda i video di sorveglianza di questo, perchè proprio lì a pochi passi è stato ritrovato il corpo senza vita di una ragazza di cui non si conosce nulla, la stessa a cui lei non ha aperto la porta. Inizia così la ricerca della protagonista di identificare e dare almeno un nome alla vittima. Quello che all'inizio poteva aver la parvenza di essere un dramma psicologico, si trasforma in poco tempo in un improbabile dramma investigativo che spinge Jenny a scelte quanto mai improbabili, come la rinuncia del proprio sogno e l'invischiarsi pericolosamente in indagini che non le competono. Quella che poteva giustamente essere una curiosità spinta da un senso di rimpianto e da senso di colpa (d'altronde, al momento del misfatto lei sarebbe dovuta essere gia rilassatamente sdraiata sul divano dopo una lunga giornata di lavoro), assume man mano i contorni di una vera e propria ossessione, resa ancor più inverosimile dalla mancanza di approfondimento psicologico della protagonista: cosa ci viene detto di lei? Cosa sappiamo del suo passato? Cosa avrebbe potuto far scattare in lei questa voglia di espiazione? Di Jenny non viene detto praticamente nulla, la sua vita ci viene presentata come solitaria, senza famiglia e senza amici, se non per lo stagista Julienne... forse un po troppo poco. Tra la totale assenza di musiche, e ambientato tra le lunghe giornate di una grigia Liegi, La ragazza senza nome accompagna lo spettatore per quasi 2 ore (113 minuti) con un trama fin troppo lineare senza particolari guizzi e priva di tensione. Poco ha potuto fare la seppur brava Adele Henel con una sceneggiatura che lascia ben poche emozioni; un'occasione persa dai fratelli Dardenne per realizzare e mettere in scena quello che sarebbe potuto essere un drammatico ma affascinante conflitto psicologico. (In basso il trailer in HD del film) |
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Gennaio 2019
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