Alla fine Iron Fist lo vedrete. Ve lo vedrete a prescindere da ciò che avrete letto qui e lì su internet, ve lo vedrete perché questa cosa dei Defenders vi intriga e non potete arrivare impreparati all’appuntamento, oramai imminente. Ve lo vedrete perché c’è stato un momento, un momento che collocherei tra la prima e la seconda stagione di Daredevil, in cui l’intreccio targato Marvel ha veramente alzato oltremisura l’asticella delle aspettative, facendoci pensare di essere dinanzi ad un capolavoro in divenire. Iron Fist, però, non è una grande serie, inutile girarci troppo intorno. Premessa: non sono un fedelissimo Marvel. Sono uno di quelli che sì, si vedono qualcosa ogni tanto, sì, è fatto bene, sì, ok, ma non è che vado a leggermi i fumetti e a rispettare con rigore l’ordine cronologico dei vari X-Men o Avengers di turno. Questa premessa è necessaria perché i fan “a prescindere” ridimensioneranno ogni critica che mi appresto a fare, un po’ per amore cieco, un po’ perché tanto ogni incongruenza o lacuna di un prodotto Marvel la andranno a colmare e a giustificare con “eh, nel fumetto ti fa vedere che…” Il punto di forza del quartetto di serie Marvel che ci viene proposto da Netflix dovrebbe essere proprio questo: offrire un prodotto complesso, sfaccettato ma coerente ed auto-esplicante. Se le cose vengono fatte per bene io, spettatore-medio, capisco ed apprezzo ogni cosa senza dover andare a sfogliare l’immensa enciclopedia Marvel per ottenere chiarezza. Ma veniamo alla storia che ci viene proposta. Iron Fist racconta la vicenda di Danny Rand (Finn Jones), piccolo rampollo di una famiglia multimilionaria che possiede una multinazionale dalle risorse illimitate (chiamata, come è ovvio, “Rand”), gestendo la stessa in tandem con la famiglia Meachum. Tra il piccolo rampollo destinato a ricchezza senza limiti e il Danny Rand che ci viene presentato nella prima puntata della stagione (scalzo, sporco e con un sorriso abbastanza da ebete) intercorrono 15 anni di vuoto (che tale rimarrà, ahimé). Questo perché Danny, quando era ancora un bambino, è rimasto vittima di un incidente aereo avvenuto per cause ignote mentre il jet di famiglia sorvolava le montagne dell’Himalaya. Mentre i suoi genitori perdono la vita, Danny viene soccorso da due monaci tibetani, che lo conducono a K’un-Lun (…un villaggio?) e lo addestrano affinché egli possa combattere La Mano. Nel corso del suo annoso tirocinio presso i monaci guerrieri, Danny diviene l’Iron Fist (come? Perché?), una sorta di guerriero dei guerrieri, di eletto, di entità divina. Ma cosa può fare l’Iron Fist? Il suo potere, derivante dal suo “Chi” (eh?), consiste in una sorta di pugno dalla consistenza dell’acciaio e dalla forza incredibile. Va detto che, dopo aver visto il buon Luke Cage affrontare eserciti e tonnellate di piombo uscendosene giusto con qualche maglietta bucherellata, il “superpotere” dell’Iron Fist appare alquanto fiacco e poco caratterizzante, ma vabbè. Già muovo la mia prima critica: come posso appassionarmi alla storia di un personaggio, se nei suoi flashback tutto ciò che vedo è il momento in cui il jet precipita (una volta, due volte, tre, abbiamo capito, ma dopo 15 anni questo ragazzo non pensa ad altro?), o al limite qualche seduta meditativa sul pizzo di una montagna? Cos’è “K’un-Lun”? Perché La Mano vuole attaccarla? Perché l’Iron Fist ha modo di “nascere” solo in quel posto? Perché Danny è sopravvissuto? Esiste realmente il “drago” di cui ad un certo punto si parla? Che si intende quando viene detto che “il passaggio per K’un-Lun è aperto”? A tutte queste domande non riceverete alcuna risposta nel corso delle 13 puntate di questa stagione. Nessuna, zero, nada. Forse questo alone di mistero ha un qualche motivo che non mi è dato conoscere, ma quello che so è che questa prima stagione aveva proprio il compito di introdurmi il personaggio principale, mentre su quei quindici anni di addestramento non c’è alcun approfondimento, anzi, lo stesso personaggio sembra rimuovere in fretta una vita di addestramento quando alle prime provocazioni del villain di turno inizia a dare di matto e a perdere il controllo. Comunque, tornando alla trama, il problema che per primo Danny si trova ad affrontare ritornando a New York è quello di dover convincere qualcuno del fatto che lui sia davvero lui, dato che, come è chiaro, tutti lo danno per morto. Farà quindi i salti mortali per convincere i suoi “fratellastri” Ward e Joy circa la sua sincerità, trovando ostacoli soprattutto per causa di Ward, che dopo la morte di Harold Meachum (padre di Ward e Joy e socio originario del padre di Danny) è il “ragazzo d’oro” che tiene le redini della floridissima multinazionale e teme un ritorno al timone della famiglia Rand. Ward (Tom Pelphrey) è probabilmente il personaggio migliore della serie: elegante, cinico, astuto ma al contempo infantile e nevrotico, regge bene il ruolo di villain nella prima parte di stagione, per poi essere rimpiazzato da altri (ne ho contanti almeno altri 3) nel ruolo di cattivo principale. Purtroppo, andando avanti, lo stesso Ward degraderà a personaggio secondario e diventerà anch’egli un personaggio alquanto monocorde ed elementare nella caratterizzazione. Già, perché personalmente è questo quello che meno mi è piaciuto di questa serie: la caratterizzazione dei personaggi. Sono tutti, davvero senza eccezioni, monodimensionali, stereotipati, o buoni o cattivi. Abbiamo, quindi, i buoni a prescindere (Danny, Colleen, Joy, Claire) e i cattivi incorreggibili (Ward, Gao e gli altri non posso svelarveli), e le evoluzioni in questo senso saranno praticamente nulle. Danny è stato il protagonista Marvel/Netflix con cui ho empatizzato meno: piatto, sempliciotto, umorale, infantile, in tredici puntate praticamente riesce solo ad oscillare tra i due poli, uno positivo, che lo fa essere virtuoso e non gli fa mai avere il minimo dubbio (“devo sconfiggere la Mano!”), l’altro, negativo, che lo fa essere rabbioso e piuttosto stupido e prevedibile (“chi ha ucciso mamma e papà?”). Colleen Wing (Jessica Henwick), l’umile ragazza asiatica che gestisce un dojo e che per prima dà ospitalità ed aiuto a Danny, è il perfetto alterego di quest’ultimo: ingenua, pura, animata da buoni sentimenti, ci metterà però giusto il tempo di qualche minuto per rinnegare l’educazione che per anni ed anni ha ricevuto, il tutto in nome dell’amore e della prevedibilità. Joy Meachum (interpretata dalla bella Jessica Stroup), altra figura femminile di spicco, è invece divisa tra sentimentalismo e cinismo, tra fiducia e diffidenza, tra valori nobili e bieco arrivismo, ragion per cui ora appare essere la “buona” di casa Meachum, ora invece la sua esponente più emblematica. Quello che però attraversa Joy non è un dualismo ben articolato, sottile e credibile: no, semplicemente questo personaggio cambia da un momento all’altro, va ad intermittenza, si comporta all’opposto di come ti aspetteresti ogni volta che credi di averlo finalmente inquadrato. L’esempio più lampante di ciò, lo vedrete, si rinviene nell’ultima scena della serie. Quanto a Claire Temple (Rosario Dawson), il collante di tutti i Defenders, anche lei è stata travolta dalla frettolosa caratterizzazione dei personaggi in Iron Fist: i suoi connotati tipici, ricorrenti tanto in Luke Cage quanto in Daredevil e Jessica Jones, qui arrivano all’estremo, diventano qui quasi macchiettistici, esasperati e poco credibili (mi viene in mente, ad esempio, la tendenza alla battuta sagace nei momenti di massima tensione, o l’atteggiamento rassegnato di chi, tanto, le ha viste tutte). Il personaggio più emblematico della caratterizzazione rozza dei personaggi di questa serie è, in ogni caso, il grottesco Davos: proprio quando ti aspetti un guerriero solido, risoluto, intelligente e carismatico, ecco che ti ritrovi un ragazzino complessato e fondamentalmente stupido, che ripete come un pappagallo le cose che gli sono state inculcate. Ma hai 30 anni, caro mio, datti una svegliata e conosci il mondo! Dal quadro catastrofico che ho appena tratteggiato voglio però escludere Jeri Hogarth (la Carrie-Anne Moss di matrixiana memoria), che riesce ad essere sé stessa anche qui, anche se stona il fatto che un personaggio così cinico e materialista sia il primo a dar credito a Danny Rand circa la sua identità (mentre Joy ha dovuto aspettare un pacchetto di M&M’s per riconoscere l’amichetto con cui è cresciuta). Elencati i difetti, occorre però anche capire cosa spinge a chiudere un occhio e ad andare avanti nella visione di questa serie: la mia risposta è “La Mano”, cioè quest’entità malefica che già ci ha tenuti incollati allo schermo in Daredevil e che ogni volta ci fa immaginare chissà quale risvolto geniale ed appassionante per ciò che stiamo vedendo. La Mano vuol dire anche Madame Gao, personaggio a sua volta magnetico, inquietante ed affascinante al contempo. Tutte le puntate in cui La Mano muove le fila della storia sono, in effetti, godibili ed accattivanti, non fosse altro, ripeto, per quell’aspettativa che si crea nello spettatore di venire a conoscenza di chissà quale nuovo dettaglio su questa organizzazione oscura e tentacolare che sembra controllare il mondo. Notevole è anche lo spazio dedicato ai combattimenti, probabilmente il più efficace che si sia visto finora tra le serie Marvel (anche se non è che la fisicità di Finn Jones, con quei boccoli colorati da colpi di sole, quei muscoli appena accennati e quel tattoo posticcio sul petto, sia particolarmente pertinente col kung-fu et similia). Poteva essere sfruttato ed approfondito meglio il tema combattimenti illegali, che per un paio di puntate vede protagonista Colleen e che risulta avvincente per quel sottobosco di personaggi spregevoli e per quelle ambientazioni alla Tekken. Le musiche che si sentono in questa serie sono di ottimo livello ed anche la fotografia lo è per buona parte della serie, anche se potrebbe essere mal digerito quella computer grafica posticcia e surreale utilizzata per tutte le scene ambientate tra le montagne cinesi. La qualità della recitazione, invece, non è degna di nota, anzi (come forse si è intuito) la prova fornita da Finn Jones nei panni di Danny è stata tutt’altro che convincente: poche espressioni usate ed abusate, come ad esempio il sorriso da bonaccione-piacione sfoggiato ogni qualvolta sta per dire una cosa dolce, o il volto corrugato con sopracciglia inarcate di quando sta per scoppiare di rabbia. Bravo, come detto, Tom Pelphrey, tutto sommato credibile anche David Wenham (meglio non dire quale personaggio interpreta...), senza infamia né lode sia la prova di Jessica Jenwick che quella di Jessica Stroup. E’ quindi così brutto, Iron Fist? No, ma è ampiamente il più debole dei capitoli introduttivi ai Defenders, per tutti i motivi esposti in precedenza. Non potendosi dilungare sulle evoluzioni della trama (onde evitare spoiler per chi non ancora avesse intrapreso la visione di Iron Fist) ci si è soffermati su quelli che sono i punti deboli della serie, perché tanto, si sa, alla fine la vedrete lo stesso. Quindi questo è Iron Fist: “ho letto che non é il massimo, mi rendo conto che qualcosa manca ma, al diavolo, me lo vedo!”. rece by Il Merlo (in basso il trailer della serie, anche in HD!)
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A metà tra Alien e Gravity, Life è il nuovo horror fantascientifico di Daniel Espinosa, per la prima volta alle prese con questo genere. (Per gentile concessione di Wikipedia) La pellicola narra le vicende di sei membri dell'equipaggio della Stazione Spaziale Internazionale, il cui compito è quello di studiare un campione proveniente da Marte che potrebbe essere la prima prova di vita extraterrestre. Ma l'organismo si dimostra più intelligente e aggressivo del previsto. Non ci vuole tanto per realizzare che quella di Life sia una trama già proposta e riproposta in tutte le salse, tuttavia il film si lascia guardare con curiosità ed interesse senza sfigurare per tutti i suoi 103 minuti. Per una volta finalmente non ci sono solo americani lassù nello spazio, ma troviamo una squadra eterogenea composta da Americano, Inglese, Russo, Inglese, Giapponese (no, non sta per partire una barzelletta...) e ognuno-chi più chi meno- riesce a fornire una parziale caratterizzazione del proprio personaggio; c'è chi è da poco diventato papà, chi è stato in guerra e non vuole più tornare sulla Terra (“in mezzo a quegli 8 miliardi di stronzi” ...conciso ma efficace!), chi nello spazio risente meno del suo handicap fisico, e poi c'è Ryan Reynolds che come al solito fa scappare sempre la risata spontanea, senza risultare inappropriato. Molto buona l'idea di ambientare il tutto in assenza di gravità, senza la solita “gravità artificiale”, meno quella di dover “macchiare” la pellicola con una fragorosa esplosione nel vuoto dello spazio...ma vabè, dettagli. Sempre alto il clima di tensione, complici anche le caratterstiche del terrificante monstriciattolo alieno (rinominato “Calvin”) ed un'atmosfera claustrofobica ben sfruttata; le gradevolissime interpretazioni degli attori poi (tra cui figurano anche Jake Gyllenhall e Rebecca Ferguson), completano il quadro di una pellicola tecnicamente molto valida, ma che alla fin dei conti risulta essere niente di più che un perfetto esempio ben realizzato di un genere visto e stravisto. Life fa il suo e lo fa anche bene, senza particolari stravolgimenti. Sicuramente da vedere, in primis per gli appassionati del genere...ma senza aspettarsi particolari sorprese. (in basso il trailer del film, anche in HD!) [in collaborazione con gli amici di www.nerdevil.it] Prendete la letalità di un Terminator, la spietatezza di The Punisher e lo spirito di Rambo: mescolate il tutto ed aggiungeteci eleganza ed un pizzico di poesia... ecco a voi il cocktail per ottenere John Wick. A tre anni dal buon successo commerciale e di critica del primo capitolo, torna Keanu Reeves nelle vesti di John Wick: stessa regia, stesso sceneggiatore, stesso cast... dopotutto dovrebbe essere sempre così: squadra vincente, non si cambia! Questo Capitolo 2 riprende esattamente da dove ci aveva lasciato la storia, con una questione in sospeso dalla precedente pellicola, e procede introducendo il doppiogiochista Santino D'Antonio (Riccardo Scamarcio – oddio, ma devono necessariamente dare agli italiani dei nomi così brutti e fintamente stereotipati?!). Sarà lui a bussare alla porta del protagonista, e spingerlo verso un'ultima(??) missione niente popò di meno che nella nostra Roma, che John non può assolutamente rifiutare. Questo è l'incipit, ma gli sviluppi della storia non saranno pochi. John Wick:Capitolo 2 permette agli spettatori di approfondire molti concetti solamente accennati nel primo film, mostrandoci a 360° il mondo di John Wick, un mondo popolato da killer sotto mentite spoglie, un mondo dove l'hotel Continental è quasi un'istituzione, sparsa con sedi anche oltreoceano. John è soltanto alla ricerca di pace, pace per se e per il suo unico fido amico a 4 zampe, ma in un mondo così non c'è pace per gente come lui, in un mondo così, in un modo o nell'altro sarà costretto a ritornare sempre in pista, o per motivi fortuite... o perchè il passato non è mai del tutto passato. C'è molta Italia nella pellicola, ma nonostante tutto-e le dovute”paure”- nessuno in fin dei conti sfigura, a partire da Roma (magica, bella...e pulita, come solo nei film Americani può essere), per proseguire con Claudia Gerini-ristretto ma intenso il suo minutaggio- e concludere con la “guest-star” Riccardo Scamarcio, a tutti gli effetti uno dei più rilevanti personaggi della storia, che dimostra di essere molto più bravo nel recitare...che non nel doppiarsi! Piacevolissima anche la presenza di Franco Nero, qualcosa di più di un cameo per lui, ma mai banale, come non lo fu anche in Django Unchained. A seguire, come già detto, ritroviamo il vecchio cast, dal buon Aurelio (John Leguizamo), Charon (Lance Reddick), impeccabile receptionist del Continental, e l'immancabile Winston, Direttore del Continental, portato in scena ovviamente da Ian McShane, per un ruolo cucitogli su misura. Winston è uno di quei personaggi di cui vorremmo sapere sempre di più, ma probabilmente se si dicesse troppo perderebbe quel fascino misterioso di chi, con ordine e poche fondamentali regole, dirige l'unica zona franca per killer professionisti: il Continental è la Svizzera, Winston è la Svizzera...bella, pulita, accogliente...ma non ammette sgarri. Un merito non può non essere riconosciuto a questo Chapter2: non ha paura di esagerare. Tutto ciò che vediamo è direttamente proporzionale al mondo in cui vive il protagonista; sparatorie come portare a spasso il cane, codici d'onore intoccabili (pena morte), pugni e calci in faccia come se non ci fosse un domani, e sangue...tanto sangue, con relativi primi piani, per non lasciare nulla all'immaginazione! Dunque, troppo esagerato? Chi può dirlo...dipende da voi, ma per ciò che vuole essere il film, per nulla affatto. Rimanendo in tema, il solito plauso lo meritano le coreografie delle scene d'azione, sempre impeccabili e perennemente accompagnate da quella fotografia simil-dark e da un sonoro volutamente martellante ad incrementarne la spettacolarità; tutto molto bello, e se magari alcune scene in questione non fossero tanto prolungate, lo sarebbe leggermente di più. Note di merito per due sequenze in particolare: la prima-nella prima parte del film-, durante la fase preparatoria all'azione, caratterizzata da un montaggio frenetico ed incalzante, la seconda-nell'ultima parte- un combattimento con location una sala piena di specchi... tensione alle stelle. Non si è parlato fino ad ora di villain, ed un motivo c'è: a differenza del suo predecessore, questo sequel ha sviluppi di trama che permettono a chiunque di essere un potenziale cattivo. Nulla è scontato, chiunque potrebbe rivoltarsi contro John,e lui lo sa. Questo è ciò che rende John Wick-Chapter2 gradevole e coinvolgente tanto quanto il primo; come ovvio che sia, si è persa l' “emozione” della prima volta e molto, dato anche il genere, sa di già visto, ma il merito della pellicola è quello di non aver voluto propinare al pubblico un sequel-fotocopia (come accaduto in passato per Taken). La novità è quella di aver creato un mondo totalmente inedito in cui ambientare le avventure del protagonista, un mondo del quale sapevamo ben poco nel primo capitolo e che adesso abbiamo imparato a conoscere, grazie anche ad altre figure volutamente non citate, tutte da scoprire ed approfondire. Lo sforzo creativo c'è stato, e sforzo ancor maggiore dovrà essere fatto per il terzo capitolo, inevitabile conclusione di una trilogia che possiede tutti gli elementi per diventare un piccolo Cult di genere. Nulla fino ad adesso è stato annunciato, ma visto il responso di pubblico e critica...ed il finale tutt'altro che chiuso, l'annuncio del Chapter:3 non tarderà ad arrivare. (in basso il trailer del film, anche in HD!) [in collaborazione con gli amici di www.nerdevil.it] Tom Hiddleston, Brie Larson, Samuel L. Jackson, John C. Reilly… no, non stiamo parlando di un nuovo film targato Marvel, ma del nuovo adattamento di King Kong della Legendary Pictures, appartenente al nuovo MonsterVerse inaugurato con Godzilla nel 2014. Dopo i tre passati adattamenti (1933-1976-2005), questa nuova avventura del celebre Gorilla gigante (qui ancor di più, visto lo scontro con il lucertolone giapponese previsto nel 2020) non ripercorre lo stesso soggetto dei predecessori, ma propone una storia inedita, scrollandosi di dosso l’etichetta di ennesimo remake. Ci troviamo nel 1973, impazza il rock (ottima la scelta dei brani proposti!), la guerra in Vietnam è appena terminata e Bill Randa (John Goodman), per conto dell’organizzazione governativa MONARCH (sì, proprio quella presente anche in Godzilla) ingaggia una squadra per una missione di esplorazione e mappatura di un’isola appena scoperta dai satelliti americani, prima che altre nazioni possano fare altrettanto. Della squadra fanno parte principalmente lo squadrone di elicotteri guidati dal Tenente Colonnello Packard (Samuel L.Jackson), l’ex Capitano Britannico James Conrad (Tom Hiddleston), la fotoreporter pacifista – e con la puzza sotto il naso – Mason Weaver (Brie Larson) e lo stesso Randa; esplorazione? Mappatura? Macché! Come prevedibile i piani sono ben altri, ma non tutti ne sono al corrente. Come avrete appena capito, la trama di Kong: Skull Island è facile facile, senza fronzoli, probabilmente la più adatta per riportare in auge il Re, forse perché è molto più semplice trovare una storia per rendere credibile un gorilla gigante che vive in un’isola inesplorata del Pacifico, piuttosto che una per rendere credibile un lucertolone di 40 piani che giunge a San Francisco. Probabilmente proprio per questo, oltre al plot, esteticamente la pellicola è completamente diversa da Godzilla, e adotta uno stile quasi opposto, con un tono più leggero, concedendosi più di qualche battuta (senza mai risultare fuori luogo); la fotografia inoltre è molto più chiara e visivamente d’impatto. Con King Kong non si ha l’effetto vedo/non vedo, non si deve aspettare quasi un’ora di film per vederlo, ma si va subito al sodo, e basta poco per ammirare il Re dell’isola palesarsi in tutta la sua imponenza; la sua realizzazione è impeccabile e minuziosa, com’è altrettanto buona quella dei kaiju (non è uno spoiler, sapete tutti che ci sono). In generale l’effettistica e la CGI non risultano mai fastidiose, non danno mai veramente la sensazione che la maggior parte dell’azione si svolga davanti ad un green screen… e non pensate che, pur trovandoci nel 2017, questo sia tanto scontato. Oltre al bestione però (Tobi Kebbell dopo Koba e Kong dimostra di essere a tutti gli effetti il nuovo Andy Serkis) c’è un’anima, un cuore che batte, un background ben narrato che permette di comprendere le azioni di Kong e far in modo che alla fine sia lui il personaggio con cui entrare più in empatia; la sua storia è triste, solitaria, quasi commovente, e non passa molto prima che ci si ritrovi a fare comprensibilmente il tifo per lui. I protagonisti umani, d’altro canto, non vantano una caratterizzazione troppo profonda, ma questa, unita alle buone prestazioni degli attori, riesce a rivelarsi sufficientemente necessaria a non far risultare la banda di malcapitati dei semplici comprimari della pellicola. Discorso a parte meritano i personaggi interpretati da John C.Reilly e Samuel L. Jackson; il primo infatti ha il merito di scrollarsi subito di dosso l’infame ruolo (in alcuni casi) di mero comic relief, interpretando un personaggio sopra le righe ma non molesto, con un ruolo se vogliamo anche di indubbia rilevanza… non una novità per l’attore. Samuel L. Jackson è invece l’emblema dell’uomo frustrato, vuoto ed egoista, un soldato che, terminata la guerra, si rende conto di non aver obiettivi nella vita se non quello di cercare un nuovo “cattivo” da combattere per avere uno scopo. Tra mostri giganti e scontri all’ultimo sangue, non è difficile identificare anche lui come uno dei villain della pellicola, la rappresentazione di quegli aspetti negativi dell’animo umano che lo portano a sentirsi padrone del mondo. Ma se il mondo non ci appartiene, ancor meno dicasi per Skull Island: l’isola è un ecosistema autonomo del quale l’uomo può essere solo minuscolo ed impotente osservatore. Non solo Kong, ma altre creature la fanno da padrone qui, ed i protagonisti, così come gli spettatori, possono solo volgere lo sguardo e godersi lo spettacolo; l’azione all’interno del film è costante, il ritmo della pellicola difficilmente cala per più di qualche minuto, ma azione non è sinonimo di confusione, e la pellicola evita di risultare troppo “fracassona” ed irritante con sequenze eccessivamente prolungate. Le scene di combattimento (che quasi mai hanno per protagonisti gli umani) sono quanto mai comprensibili e le dinamiche degli scontri sono chiarissime: tanto per essere chiari, si capisce bene chi colpisce chi, dove lo colpisce, come lo colpisce, ecc… e chi ha visto un qualsiasi Transformers (tanto per dirne uno) sa benissimo quanto il rischio di generare un marasma sia dietro l’angolo in certi frangenti… Insomma, vale la pena di vedere Kong: Skull Island? Ma anche sì! La pellicola chiaramente non ha chissà quali pretese, se non quelle di sorprendere (soprattutto visivamente), intrattenere e divertire lo spettatore, e ci riesce in maniera semplice ed ordinata, senza dover ricorrere a banalità o eccessivo “casino”. Un grande “giocattolone” (nell’accezione positiva del termine) ben confezionato che si lascia guardare con piacere. Ad oggi, data l’enorme differenza stilistica da Godzilla, risulta forse difficile immaginare un film con entrambi i giganti protagonisti, ma chi di dovere avrà tempo per pensarci. Nel frattempo godiamoci questa nuova versione di Kong: il Re è Tornato! …e tornerà ancora! (non vi alzate fino alla fine dei titoli di coda!!). (in basso il trailer del film, anche in HD!) [in collaborazione con gli amici di www.nerdevil.it] Decimo film sui mutanti, terzo film su Wolverine, Logan è il nono film a regalarci ancora, un'ultima volta Hugh Jackman nei panni di uno dei personaggi più iconici ed amati dei fumetti (e non solo), ancora diretto da James Mangold, dopo The Wolverine (2013). Mettiamo un po’ d’ordine, dato che la cronologia della saga degli X-Men negli ultimi anni ha creato non poca confusione negli spettatori: la pellicola è collocabile in un futuro prossimo successivo agli avvenimenti di X-Men: Apocalypse, dunque slegata completamente dai primi 3 lungometraggi sugli X-Men e dai 2 precedenti spin-off, visti gli stravolgimenti temporali accaduti in Days of a Future Past (2014). Siete ancora confusi? Poco male, infatti per quanto possa sembrare incredibile, non è così azzardato affermare che Logan è un film da poter vedere autonomamente, un capitolo che per trama e tematiche non presenta particolari riferimenti vincolanti alle precedenti pellicole. Siamo nel 2029, i mutanti sono ormai solo un ricordo, diventati leggende da fumetti, ed uno stanco ed acciaccato Logan vive facendo l’autista e accudendo in segreto, con l’aiuto di Calibano (Stephen Merchant), un altrettanto sfinito e malato Professor X, creduto defunto da un anno. Ad un tratto si presenta lungo il suo cammino Laura, una ragazzina molto “simile” a lui, inseguita da una losca organizzazione chiamata Transigen, e per proteggerla sarà costretto ad una fuga lungo le strade più desolate d’America e a fare i conti, ancora una volta, anche con il proprio passato. Come avrete potuto capire, la trama di Logan non è delle più complesse ed è abbastanza lineare. Più che in un convenzionale cinecomic ci si ritrova immersi in una storia on the road dai tratti drammatici; è tutto cambiato, tutto diverso, a partire dalle toccanti musiche originali di Marco Beltrami, fino ad arrivare ad una fotografia grigia e malinconica in grado fornire ancor più spessore e solennità alla pellicola. Fa male vedere un Wolverine così: demotivato, disilluso e alle prese con quei problemi fisici che dopo più di un secolo di vita stanno segnando anche lui; è sconvolgente constatare che il tempo abbia segnato inevitabilmente anche una delle menti più potenti come quella di Charles Xavier, ma è quasi commovente osservare l’evoluzione che ha raggiunto il rapporto tra due personaggi così diversi tra loro. La caratterizzazione soprattutto psicologica dei protagonisti è fin troppo chiara e limpida, un duro colpo al cuore per chiunque sia seduto in sala, e permette di scoprire tratti finora inesplorati dei personaggi. Discorso analogo va fatto per l’annunciata new entry Laura Kinney (conosciuta anche come X-23), la cui personalità viene fuori gradualmente, attraverso un’interpretazione maiuscola della dodicenne Dafne Keen, che riesce a dare un’incredibile intensità ad un personaggio così enigmatico e sfaccettato. Sarà lei a dare un nuovo scopo alla vita di una persona che pare continui a vivere solo per inerzia; il suo rapporto con Logan risulta infatti come qualcosa di unico, differente da quanto visto nel primo X-Men con Rogue, un legame dai tratti tanto profondi quanto bizzarri in alcuni frangenti, che vede la luce anch’esso in maniera crescente tramite sequenze e situazioni girate con pregevole maestria. Qualcuno ce lo vede uno dei più violenti personaggi Marvel nelle vesti di tutore di una ragazzina? Molto probabilmente l’unico ad avere un briciolo di speranza che ciò accada è il Professore, il solo rimasto a poter spronare il suo vecchio allievo. Nei panni del villain, accompagnato costantemente da militari a suo seguito, troviamo Donald Pierce (Boyd Holbrook), agente della Transigen sulle tracce della piccola Laura. Pierce è una sorta di soldato, più braccio armato che mente, un personaggio dal background solo accennato, ma caratterizzato ed interpretato a tal punto da risultare minaccioso e soprattutto odioso fin dalle prime battute. Non il miglior cattivo visto fino ad oggi, ma senza dubbio quello di cui aveva bisogno questa pellicola; spietato, più di un semplice scagnozzo, è un individuo che farebbe di tutto, scavalcando anche i più elementari principi etici, pur di raggiungere i suoi obiettivi. Non sarà l’unico a dare filo da torcere ai protagonisti, ma è bene non rivelare più di quanto sia stato fatto dai trailer, per non rovinarvi gli inaspettati, e per certi versi sconvolgenti, colpi di scena. Logan è un film dannatamente completo, il capitolo perfetto di cui aveva bisogno Hugh Jackman per mettere la parola fine ad un’avventura iniziata ben 17 anni fa. All’uscita dalla sala si ha la piacevole sensazione di appagamento nei confronti del personaggio, la certezza di aver conosciuto tutti (ma proprio tutti!) i lati del mutante artigliato, soprattutto grazie all’anima che il buon Jackman ha riversato in quest’ultima interpretazione. La pellicola è carica di tensione fin dalle prime battute, tensione che raggiunge lo spettatore durante tutti i 137 minuti, permettendo di dare costante ritmo e vivacità a una storia dal giusto equilibrio tra azione e non, che fornisce il necessario spazio a tutti i personaggi, e di questo ne è la prova Calibano, risultando anch’egli incisivo nonostante il minutaggio ridotto. Non mancano anche i momenti divertenti, attentamente centellinati, mai fastidiosi ed in perfetta linea con il tono della pellicola. A completare il tutto, dialoghi profondi e mai banali, in perfetta sintonia con sequenze di combattimento quanto mai truculente e ben girate; ci troviamo senza dubbio di fronte al più violento dei film sui mutanti (il divieto ai minori di 14 anni ne è la prova), con spargimenti di sangue da far mettere le mani davanti agli occhi. Esagerazione? Assolutamente NO! La ferocia mostrata dal protagonista è semplicemente una conseguenza del suo stato d'animo, una risposta esasperata e quanto mai animalesca a tutto ciò che ha subìto (e subisce ancora) nel corso della sua vita, una brutalità più che giustificata. Ma se pensate che sia tutto qui (si fa per dire), aspettate di vedere in azione la piccola Laura, in perfetta sintonia con il protagonista e addirittura in grado di rubargli più di una volta la scena, a testimonianza dello splendido lavoro fatto con il personaggio e dalla giovanissima attrice. Sto esagerando? No, no e ancora NO, Logan è un film stilisticamente unico nel suo genere ed è senz'altro il miglior film sugli X-Men (accompagnato da Days of a Future Past); azione, serietà, profondita, pathos... come già detto, un cinecomic atipico, considerabile tale tanto quanto la trilogia Nolaniana di Batman possa essere definita cinecomic. All'uscita dal cinema gli spettatori si sentiranno interdetti, ammutoliti, con un inevitabile solco sul cuore... ma in fondo è giusto così. Tutte le avventure sono destinate ad avere una fine... e questo era senz'altro il miglior modo per rappresentarcela; il miglior e più intenso modo per permettere a Hugh Jackman ed al suo Wolverine di salutarci come merita, per un'ultima volta. (in basso il trailer del film, anche in HD!) |
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Gennaio 2019
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