[In collaborazione con gli amici di www.nerdevil.it !] Cinque pellicole in 10 anni dirette da Michael Bay ci avevano fatto credere che forse i film dedicati ai celeberrimi Transformers della Hasbro non potessero essere differenti da ciò che sono stati: grandi effetti speciali, scontri ed esplosioni a non finire, personaggi umani approfonditi quanto una pozzanghera sahariana e causa di cefalea una volta usciti dal cinema. Ora, chi vi scrive è nel suo piccolo un fan del buon Michael Bay, uno che gli riconosce un suo particolare stile (un po’ del cazzo sì, ma sono dettagli) ed un estimatore (nei limiti del caso) dei primi 2-3 film della saga, prima che il nostro beniamino tirasse fuori tutte le sue più grandi qualità per mandare totalmente in vacca l’intero franchise. Dunque, come continuare a portare i Transformers al cinema? Una volta scovato il problema (sorry, Michael… sigh) lo si mette tra i produttori e si chiama un regista fresco, più giovane, si spostano indietro le lancette della “continuity” della saga (ormai inesistente e martoriata fino all’inverosimile) e si tenta un riavvio. Così arriviamo al 2018, a solo un anno dalle 9 candidature ai Razzie Awards di Transformers – L’Ultimo Cavaliere, con la Paramount che tenta un ultimo colpo di coda con Bumblebee. Alla regia questa volta troviamo Travis Knight, che finora aveva diretto il solo ma molto apprezzato Kubo e la Spada Magica, per quello che agli occhi di tutti è il primo spin-off della saga. Siamo nel 1987, infuria la guerra su Cybertron, gli Autobot sono in ritirata e Optimus Prime spedisce il fido Bumblebee sulla Terra per formare un nuovo avamposto e proteggere i suoi abitanti nel caso di arrivo dei Decepticon; i cattivi arrivano e si mettono a cercarlo, ma lui nel frattempo ha perso la memoria e conosciuto la cara Charlie. La trama per molti versi non differisce eccessivamente dal primo capitolo del 2007, ma una delle poche cose certe del cinema è che non è importante quale storia si (ri)racconti, ma come, e Bumblebee lo fa in maniera completamente diversa rispetto a prima. Innanzitutto ci sono gli anni ’80, c’è la musica tipica di quegli anni, ci sono anche i cereali di Mr. T e sì, infuria ancora il clima da Guerra Fredda. Sopra ogni cosa però ci sono i Transformers, quelli veri, con un design tutto nuovo piacevolmente cartoonesco e riconducibile alla serie G1, che li rappresenta grandi ma non giganti, e finalmente c’è anche il nostro protagonista con le sembianze del maggiolinoche l’ha reso tanto celebre e riconoscibile. Ma tutto non sarebbe così diverso se dietro la macchina da presa Travis Knight non avesse dato un’impronta totalmente rinnovata al tono e allo svolgimento della pellicola, semplicemente imparagonabile per stile ai precedenti. Bumblebee è una sincera storia d’amicizia tra due individui che hanno perso qualcosa, qualcosa che crea un vuoto talmente grande che forse solo insieme potranno colmare. Non è un caso (incredibile solo pensarlo) che i momenti migliori del film siano proprio quelli tra i due, dove imparano a conoscersi, a ritrovare loro stessi, dove lo spettatore a sua volta impara a conoscerli e a comprendere appieno i loro stati d’animo. Il loro rapporto prende chiaramente ispirazione da altre pellicole con analoghi tipi di protagonisti, ma nel complesso la possibile sensazione di già visto viene spazzata via dalla simpatia e dalla quasi commovente tenerezza che riescono ad esprimere i due. Da una parte abbiamo la bravissima Hailee Steinfeld nel ruolo di Charlie, una bella diciottenne mai volgare (qualsiasi riferimento a Megan Fox è puramente casuale), tosta ma fragile, che ha perso il padre ed è in rapporti non proprio idilliaci con il resto della famiglia; dall’altra abbiamo Bumblebee, in fin dei conti il caro vecchio robottone conosciuto fino ad oggi, ma confuso e spaesato sulla Terra dopo aver perso la memoria in battaglia, del quale riusciamo finalmente a scoprire qualche nuova sfaccettatura. In tutto questo c’è ovviamente anche spazio per le esplosioni (e non il contrario), con sequenze actionche fortunatamente non occupano più del 15/20% della durata totale, ma che hanno invece il pregio di essere chiare, dirette senza l’intenzione di bombardare, tramortire e rimbecillire lo spettatore: in una parola, BENE. Nessuna opera d’arte, ma un lavoro ben fatto. E dei cattivoni ne vogliamo parlare? Tutto sommato non sarebbe neanche strettamente necessario, non perché le spie Decepticon Shatter e Dropkick siano due macchiette o personaggi inutili ai fini della trama, anzi, si rivelano cattivi e spietati come forse visto poche altre volte nella saga. Non serve parlarne perché, per la prima volta nella storia cinematografica dei Transformers, non sono gli scontri e le esplosioni il fulcro del film. Per fortuna. Alla buon’ora. Nota di merito, inoltre, per aver saputo gestire egregiamente la presenza di John Cena, non di certo rinomato per le sue doti recitative. La parte praticamente gli calza a pennello e il minutaggio a lui dedicato è calibrato perfettamente non solo per le sue capacità, ma anche ma anche per fornire una minima e sufficiente caratterizzazione ed evoluzione al suo personaggio: tanto di cappello alla produzione. Insomma, vale la pena tornare in sala un’ennesima volta per vedere il sesto film sui Transformers? Sì, sì e altre dieci volte sì, perché questo non è il solito film su robottoni che spaccano e fanno esplodere tutto (il che può essere anche appagante… fino ad un certo punto), ma una storia d’amicizia dai toni a tratti quasi fiabeschi, ottimamente narrata. Una novità assoluta per il franchise, che adesso però deve i fare i conti con una continuity ancor più stravolta: sarebbe molto difficile, nonostante riferimenti e strizzate d’occhio alle pellicole precedenti, fare un completo elenco di tutte le incongruenze ed anacronismi presenti almeno in 4 dei 6 film della serie. Non si capisce ancora del tutto se Bumblebee voglia rappresentare uno spin-off, un prequel o un reboot totale della saga. La risposta del pubblico, e per la prima volta anche della critica, però è stata molto chiara: vuoi un consiglio spassionato, Paramount? Un bel colpo di spugna e avanti tutta con questo nuovo corso: i più neanche se ne accorgeranno e i fan di lunga data non potranno che esserne felici. ...ma ricordate sempre che Michael Bay occuperà sempre un posticino speciale nel nostro cuore! <3 (In basso il trailer del film!)
0 Commenti
[In collaborazione con gli amici di www.nerdevil.it !] Si era partiti con un’opera di stampo shakespeariano, scegliendo Kenneth Branagh alla regia del primo film solista del Dio del Tuono; adesso sono passati sei anni, l’MCU è al suo 17° lungometraggio e la Marvel ha deciso (ormai da tempo) di cambiare registro al proprio personaggio. Thor: Ragnarok è quel film con protagonista il figlio di Odino che mai avremmo creduto di vedere prima della creazione dell’universo cinematografico Marvel: tutti si sarebbero aspettati qualcosa di solenne, epico, infarcito di dialoghi ampollosi e profondi, ma i tempi sono cambiati e pellicole come Guardiani della Galassia hanno chiaramente contribuito a cambiare il modo di fare cinema alla Casa delle Idee. Ma proseguiamo con ordine: Thor è alla ricerca di risposte da quando ebbe una visone di Heimdall (in Age Of Ultron – 2015), Hulk è disperso da due anni, Loki governa Asgard sotto mentite spoglie e come se non bastasse Hela, la dea della morte, è arrivata proprio ad Asgard per rivendicare il dominio su tutti i Nove Regni. Gli elementi ci sono tutti e la combo d’apertura Thor/Surtur con Immigrant Song dei Led Zeppelin in sottofondo è gia un sunto di ciò che seguirà: botte, dialoghi irriverenti e genuina tamarragine. Thor: Ragnarok volta completamente pagina rispetto al passato: le scene sulla Terra sono ridotte all’osso (pressoché nulle), la fotografia è completamente cambiata dando spazio a quei colori accesi e sgargianti che tanto caratterizzano il lato “cosmico” dell’MCU, ed i toni leggeri e divertenti hanno preso il sopravvento. Ciò che non cambia sono loro: i fratellastri. Thor e Loki sono un po’ come Totò e Peppino, che prima sono complici, poi si odiano, si picchiano, si alleano, si tradiscono, ma alla fine si vogliono bene… a modo loro, ma si vogliono bene, regalandoci gag a ripetizione e mostrandoci anche qualche altra piccola sfaccettatura del loro rapporto. Chris Hemsworth e Tom Hiddleston sono perfettamente a proprio agio nelle rispettive parti e questa è storia assodata già da anni, ma Hiddleston in particolare dimostra ancora una volta la sua capacità di far apparire Loki carismatico, nonostante il tempo lo abbia parzialmente trasformato in un comic-relief. Il Dio dell’Inganno e il suo interprete sono più forti di questo, e il personaggio nonostante tutto appare attraente, accattivante e sopra le righe; d’altronde se anche lui è tanto amato dal pubblico un motivo ci sarà. Dall’altra parte c’è il binomio Thor–Hulk (questa volta più Hulk che Banner), che appare più come una coppia alla Bud Spencer e Terence Hill. In Thor: Ragnarok il pubblico trova un gigante verde completamente nuovo, dove è possibile identificare quasi totalmente la scissione tra l’uomo e il “mostro”: la tipica battuta “Hulk odia Banner” che si trova nei fumetti e viene per la prima volta ripetuta in un film. Hulk si sente a casa sua su Sakaar, tra combattimenti all’ultimo sangue e libero dalla necessità di tornare alla propria forma umana, ma ritrovare il proprio “collega di lavoro” cambierà decisamente le carte in tavola. Ai personaggi che già conosciamo se ne aggiungono inevitabilmente altri, e se tra questi spiccano Valchiria (Tessa Thompson) e il Gran Maestro (Jeff Goldblum) lo stesso non si può dire per Skurge, con un Karl Urban relegato in un ruolo importante quanto la sesta marcia in un’auto, e per il ritorno in sordina del buon Heimdall (Idris Elba). Con le comprimarie femminili toste la Marvel ha spesso fatto centro (Vedova Nera, Peggy Carter, Gamora) e Tessa Thompson continua questa piacevole tradizione dando vita ad un personaggio cazzuto e dalle diverse sfaccettature, di cui sappiamo quanto basta per comprendere le sue azioni; una presenza che di certo non sfigurerebbe in mezzo agli altri eroi nel prossimo scontro con Thanos in Infinity War. Jeff Goldblum d’altro canto si diverte e non poco: il suo Gran Maestro è una bella (bellissima) copia di Jabba The Hutt, che vive nel suo palazzo in un pianeta discutibile come Sakaar, gestisce incontri all’ultimo sangue e a quanto pare non è così restio ad omicidi e torture, ma l’interpretazione leggera ed incisiva dell’attore contribuiscono, in linea con il tono della pellicola, a far emergere maggiormente il lato ironico ed irriverente del personaggio. Nulla da ridire anche sull’interpretazione di Cate Blanchett, che fa quel che può per esaltare la sua Dea della Morte, ma purtroppo Hela rientra in quella cerchia di villain Marvel scritti in maniera piuttosto frettolosa e didascalica. Dopo Ego (Kurt Russell) e l’Avvoltoio (Michael Keaton) pareva che ai piani alti avessero deciso di intraprendere una nuova strada per quanto riguarda i cattivi, ma se Hela riuscirà ad essere ricordata in futuro sarà esclusivamente merito della propria interprete; la Blanchett oltre alla sua naturale bellezza e sensualità, prende quei pochi elementi che ha a disposizione per fornire un minimo di spessore alla Dea. Un personaggio parzialmente sacrificato, così come lo è il Ragnarok che dà il nome al titolo della pellicola. Il Ragnarok è l’Apocalisse, la fine del Mondo (di Asgard) secondo la mitologia Norrena, una fine del mondo che per una buona metà lascia spazio alle vicende meno serie di Thor, Loki, Hulk e Valkiria: saranno rimasti soddisfatti i fan di Planet Hulk, altra saga a fumetti a cui fa riferimento la pellicola, ma probabilmente le vicende Asgardiane avrebbero meritato maggiore spazio. La sceneggiatura di Thor: Ragnarok, tra soluzioni sbrigative e mancati approfondimenti necessari, è tutt’altro che eccelsa, ma nonostante tutto Taika Waititi riesce ad amalgamare il tutto rendendo meno vistose tali lacune. La pellicola del regista neozelandese, tra gradevolissime musiche di chiaro stampo anni ’80 e i mille colori di una CGI migliore di quanto ci si sarebbe aspettati dai trailer, gode senz’altro di un buon ritmo: i momenti “morti” sono pressoché azzerati, e lì dove non c’è azione arriva la battuta, la gag. Sì, tutto molto divertente, forse anche troppo. È vero che non è mai cosa buona e giusta prendersi troppo sul serio (come si è tentato in casa DC), ma cercando di cavalcare l’onda delle pellicole Galattiche di James Gunn, forse si è finiti con lo snaturare parzialmente un personaggio del calibro del Figlio di Odino. Per carità, nulla di parodistico o fastidioso, semplicemente, come già detto all’inizio, uno stile che fino a qualche anno fa il pubblico non si sarebbe aspettato in un film dedicato a Thor. Tirando le somme, cos’è Thor: Ragnarok? La terza pellicola sul Dio del Tuono si rivela a tutti gli effetti uno spassoso pop-corn movie: un film che chiaramente si prende poco sul serio e permette, prima del prossimo mastodontico crossover in arrivo a Maggio 2018, di rivedere in azione alcuni tra i più amati beniamini. Thor: Ragnarok è semplicemente e serenamente ciò che “il grande pubblico” voleva… niente di più, niente di meno, ed è stato accontentato. (In basso, il trailer della pellicola anche in HD!) “Non ho iniziato io questa guerra… ma la finirò.” Ebbene sì, per quanto il leader delle scimmie Cesare si sia sforzato di scongiurare un conflitto, il corso degli eventi ha portato ad un epilogo che era ormai diventato inevitabile. Sono passati 2 anni dagli avvenimenti di Dawn of the Planet of the Apes e 15 dalla diffusione di quello che è ormai conosciuto come il “virus delle scimmie”; gli schieramenti erano già pronti, ma ciò che non era noto era quale sarebbe stato il casus belli per questo scontro totale. Matt Reeves torna di nuovo dietro la macchina da presa e riprende in mano la storia di questo nuovo mondo post-apocalittico (dopo il primo capitolo diretto da Rupert Wyatt) presentando una pellicola bellica a 360°; il regista mostra come la guerra non sia fatta solo di esplosioni e bombardamenti (chissà come avrebbe diretto Michael Bay una pellicola del genere…), ma di faide interne, contraddizioni e conflitti psicologici. Fin dalle prime battute risulta difficilissimo non stare dalla parte delle scimmie, quando la fazione opposta è rappresentata dal lato umano più basso, vile e guerrafondaio, ma sono veramente tutti corretti i comportamenti del loro capo? Koba è morto, ma la sua presenza aleggia costantemente durante la pellicola come un fantasma del passato, ponendo Cesare di fronte ad incubi, tormenti ed un terribile dilemma: “…e se stessi diventando proprio come lui?” Il leader delle scimmie, interpretato ancora una volta magistralmente da Andy Serkis, affronterà un lungo viaggio animato dalla vendetta per (ri)scoprire se stesso, tra lande ghiacciate e zone di guerra, ma fortunatamente non sarà da solo. I fedelissimi Maurice, Rocket e Luca infatti non lo abbandoneranno, e i quattro faranno inoltre la conoscenza di due interessanti personaggi: il simpatico “scimmia cattiva” – un loro simile che durante la vita in gabbia è stato sempre apostrofato così – e una piccola umana incapace di parlare trovata in un villaggio abbandonato, rinominata da loro Nova (probabilmente per i fan della vecchia pentalogia questo terzo capitolo risulterà quello con più riferimenti e “tributi” alle pellicole del passato). Dall’altra parte della barricata vi è invece “Il Colonnello” Woody Harrelson, cattivo annunciato che già dai primi trailer strizzava l’occhio al Marlon Brando di Apocalypse Now; spietato, dispotico, con idee e convinzioni solo superficialmente motivate che non perdono tempo prima di degenerare in pura follia. Il Colonnello McCullough non lascia scelta allo spettatore: impossibile stare dalla sua parte ed empatizzare con lui, a conferma dell’intenzione del franchise di identificare il genere umano, fatte rarissime eccezioni, come unica causa dei propri mali. Ciò che rappresenta (senza andare troppo nello specifico per evitare spoiler) è l’efferatezza che ha sempre contraddistinto l’uomo in tutti i conflitti della sua storia, con crudi rimandi alle grandi guerre del secolo passato: insomma, è la Storia che inesorabilmente e tristemente si ripete. In War for the Planet of the Apes (odio totalmente le traduzioni italiane adottate per questa trilogia!) nulla è lasciato al caso, a partire dai nuovi personaggi introdotti: Colonnello, scimmia cattiva e Nova; ognuno di loro viene sufficientemente approfondito, ognuno avrà un suo preciso scopo ai fini della storia e qualcuno sarà anche in grado di farci sorridere, ma senza stravolgere l’equilibrio di una pellicola di chiara impronta seria e riflessiva. La costruzione di molti rapporti fa di necessità virtù la vera e propria incapacità di dialogare di molti interpreti, soffermandosi su primi piani, mimiche e gesti che rendono le parole superflue. Ne è un perfetto esempio il legame tra l’orangotango Maurice (presente sin dal primo capitolo) e la piccola Nova, talmente chiaro e sincero da risultare efficace anche senza dialoghi. Altre gradite sorprese arrivano dal lato tecnico, con un fotografia grigia in perfetta sintonia col tono della pellicola e con location umide e innevate, ma soprattutto una colonna sonora che alterna il “nuovo” a musiche che hanno come palese ispirazione le pellicole della saga originale; come già detto, è forte in quest’ultimo capitolo l’influenza delle pellicole analoghe degli anni ’60 e ’70. L’ultimo (?) atto di questa coinvolgente trilogia non è perfetto, ma ci si avvicina; è giusto evidenziare la “fortunata” sincronizzazione di alcuni eventi chiave nella sceneggiatura, ma è bene passarci sopra a fronte di altrettante intelligenti trovate, ma soprattutto al cospetto di una Regia (con la R maiuscola) in grado di gestire ottimamente un dramma bellico di 142 minuti carico di tensione, emozionante e struggente. War for the Planet of the Apes è la degna conclusione di una trilogia già molto apprezzata oggi, che certamente continuerà ad essere amata dalle prossime generazioni; senza dubbio e senza azzardo uno dei migliori e più maturi blockbuster della stagione, oltre a rappresentare la consacrazione come “motion capture-man” (semmai ce ne fosse ancora bisogno) e non solo, di Andy Serkis. Il suo Cesare ci ha intenerito, esaltato, commosso, entusiasmato, risultando uno dei personaggi più coinvolgenti e memorabili degli ultimi anni… impossibile fare di meglio. Allora diciamolo senza timore: DATE UN OSCAR A QUESTA SCIMMIA! (In basso, il trailer in HD della pellicola!) [In collaborazione con gli amici di www.nerdevil.it !] “Sono qui da sempre!” recita la tagline di Transformers – L’Ultimo Cavaliere, e già qui verrebbe da chiedersi: ma voi produttori ve le ricordate le precedenti quattro pellicole? Avete perlomeno tentato di seguire un filo “logico” dal 2007? Lo sappiamo bene che sono qui da sempre, visto che il secondo capitolo (La Vendetta del Caduto) aveva un prologo ambientato addirittura nell’antico Egitto! Comunque sia, la saga dei Transformers continua ad espandersi e a riscrivere alcuni dei più importanti eventi storici come neanche il miglior Giacobbo con Voyager saprebbe fare; tutto molto divertente ma, senza neanche essere troppo pignoli, tutto molto sconnesso se si ripensa ai riferimenti “storici” dei precedenti capitoli. Questa volta tocca alla “Dark Age” dell’Inghilterra (V secolo), e vede protagonisti nientemeno che Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda, Mago Merlino (interpretato da uno Stanley Tucci il cui personaggio interpretato nel precedente capitolo pare essere stato cestinato) e i Draghi! Si assiste ad un prologo in stile Il Gladiatore, visivamente d’impatto, ma con mooolta slow motion. Salto di 1600 anni, e veniamo a conoscenza del fatto che il buon Cade Yeager (Mark Whalberg) è tornato a fare una vita peggiore di quella che faceva prima e come se non bastasse senza figlia al seguito, poiché al college (nel film c’è spazio solo per una bella); ma visto il buon rapporto con il personaggio interpretato dal già citato Tucci in Age of Extinction, non poteva farsi “sistemare” nella sua azienda? A quanto pare le raccomandazioni non funzionano bene come da noi. Fatte le dovute premesse, qual è il plot di questo Ultimo Cavaliere? Stavolta ci troviamo di fronte ad una sceneggiatura molto più complessa ed articolata: i buoni dovranno impedire che i cattivi vengano in possesso di un oggetto che potrebbe distruggere la razza umana. Già, proprio come lo erano il Cubo, la Matrice, il “ponte spaziale”, il Seme… e ovviamente stavo scherzando. Optimus Prime è disperso nello spazio alla ricerca dei suoi “creatori” (ma non ci avevano detto che “prima dell’alba dei Tempi c’era il Cubo”??), i Transformers continuano a piovere sulla Terra come se non ci fosse un domani, e Megatron sta riorganizzando il suo esercito. La chiave di ciò che tutti stanno cercando sono Sir. Edmund Burton (Anthony Hopkins), Vivian Wembley (Laura Haddock, una Megan Fox di classe) e Cade; di contorno, un manipolo di nuovi personaggi e Transformers pressoché inutili ai fini della trama, messi lì solo per fare numero. Hopkins ha dichiarato di aver capito poco o nulla della trama, e non gli si possono dare tutti i torti, ma due cose sono innegabili: la prima è che la sua presenza regala sempre quel tocco di classe che rende qualsiasi pellicola non detestabile (del tipo: “com’è stato quel film?” “niente di che, però c’era Anthony Hopkins!”), la seconda è che pur non capendoci molto, è lampante che si sia divertito e non poco nel girare, soprattutto col fido maggiordomo robotico bipolare Cogman, palese omaggio a C3PO. Il personaggio da lui interpretato è quello tipico alla Sir. Anthony: l’elegante lord inglese che non ha bisogno di troppe presentazioni, colui che sa tutto e ne è ben consapevole, e che fornisce spiegoni; funzionale e ben distribuito durante l’intera pellicola. [Apriamo un piccolo capitolo sugli spiegoni: viene “rivelato” che i Transformers sono stati fondamentali per alcuni passaggi fondamentali della storia dell’uomo (ad esempio nella Seconda Guerra Mondiale), informazioni in parte già note, ma anche anacronistiche. Nei primi due capitoli infatti si era già detto che erano stati sempre sulla Terra, ma nascosti, e il fatto che avessero già interagito con l’uomo si sarebbe dovuto già sapere negli stessi capitoli, visto che il reparto specializzato S7 (quello capitanato da John Turturro, tanto per intenderci) monitorava da molto tempo l’attività aliena sul pianeta; ma così non è stato, quindi per esigenze di sceneggiatura si è addirittura distrutta e riscritta la mitologia creata dalla saga stessa!] Tornando ai nuovi personaggi, è la volta della bella di turno Laura Haddock, nei panni della Prof. Universitaria Vivian Wembley; ci troviamo di fronte alla tipica Professoressa in stile Bay, ossia quella strafiga che non capiterà MAI di vedere insegnare in una qualsiasi Università del pianeta e che, per di più, “è sempre single”! Nonostante tutto, non risulta fastidiosa e perlomeno non rappresenta la “bella senza cervello” come per i precedenti capitoli. Ovviamente la sua presenza è costantemente affiancata a Mark Whalberg, ma il rapporto tra i due, seppur prevedibile, riesce in fin dei conti ad essere godibile e divertente. Andando al sodo, Transformers – L’Ultimo Cavaliere comunque ha degli evidenti problemi, in primis a livello strutturale. I primi tre quarti della pellicola sono solo una lunga spiegazione e preparazione (neanche troppo movimentata) per il gran finale, quindi non biasimo chi dopo 90 minuti si fosse iniziato a spazientire: non perchè il ritmo sia troppo pacato, ma caspita, siamo in un film di Michael Bay e non si possono non sentire esplosioni per più di 15 minuti! Vai, Michael! Non trattenerti! Non sprecare troppi dialoghi ed autocitazioni dei precedenti film per convincerci della validità del plot! Nella primissima parte vengono introdotti nuovi personaggi, come la brava Isabella Moner (Izabella), ritroviamo il Capitano Lennox (Josh Duhamel, questa volta a capo della TRF) insieme al fido Epps (Tyreese Gibson) e ogni tanto si intravede anche John Turturro (per un minutaggio ignobile e per un ruolo quasi del tutto inutile). Personaggi le cui prime battute fanno presagire una loro certa importanza all’interno della storia… e invece no. Potrei parlare di altri personaggi, ma se i già citati hanno ricevuto tale trattamento, figuriamoci gli altri. Stesso discorso per gli altri Autobot, tutti semplici passanti, ad eccezione di Bumblebee e Optimus Prime. Sembrerà impossibile, ma anche il minutaggio del Capo degli Autobot è parecchio ridotto ed è anche la sua assenza che si fa sentire nei primi tre quarti di pellicola già citati; prove in vista dello spin-off su Bumblebee? Sarà anche dolce e simpatico, ma la presenza e la caratura di Optimus sono ben altro. Un altro problema è il villain: non è mai presente. Il cattivo c’è, ma non interagisce praticamente mai con i protagonisti. Inoltre dovrebbe rappresentare lo scopo finale della ricerca di Optimus Prime, ma… chi è? Cos’è? Come? Perchè?? Dovrebbe essere portatore di rivelazioni (di carisma e caratterizzazione, almeno), invece nulla. Il grande ritorno però è quello di Lord Megatron! Nuovo design da paura, solita presenza di livello, ma come si è arrivati a questo punto? In Age of Extinction era stato riportato in vita e rinominato Galvatron; solo verso la fine ci si rende conto che potrebbe essere veramente Megatron, ma adesso nessuno più si sorprende della sua esistenza. È troppo chiedere un minimo di approfondimento su ciò che è accaduto fino agli eventi di questo film? Ma nonostante il suo ritorno e il reclutamento di una folta schiera di Decepticon, anche il suo ruolo non è così rilevante come ci si sarebbe aspettati. Per giudicare un film di Michael Bay bisogna essere preparati. È fondamentale entrare in sala con la consapevolezza di ciò a cui si sta andando incontro. Guardando il film con le giuste premesse, si può affermare che anche questa volta il regista ha regalato a tutti ciò che volevano. Tutti i film della saga di Transformers (soprattutto gli ultimi due) avevano particolari difetti, e questo non è affatto da meno, ma complessivamente anche in quest’occasione Bay ha accontentato i suoi seguaci. Forse resosi conto della “pesantezza” della prima parte, negli ultimi 40 minuti il regista ha voluto esagerare, con un finale clamorosamente caciarone, di dimensioni indicibili, riuscendo probabilmente a superare tutti i capitoli precedenti. Attraverso questo finale riesce a redimersi, coinvolgendo qua e là tutti i protagonisti, con sequenze d’azione meno reiterate e meglio gestite che non risultano snervanti, con Megatron all’assalto, navicelle che volano, mondi che si distruggono, ma soprattutto con la presenza maiuscola di Optimus che, tra classiche citazioni epiche, cambi di fronte e botte micidiali, la fa da padrone; quando poi partono i celebri temi musicali nei momenti giusti, il cuore dei fan si scioglie. Inutile soffermarsi sulla potenza visiva degli effetti speciali, propedeutico ed infallibile marchio di fabbrica dei celebri robottoni. Dopo il carico di adrenalina finale non si può uscire dalla sala senza esclamare: “ma sì dai, è stato figo!”. Un giudizio che non dice nulla e conferma tutto, o almeno dimostra che i Transformers vanno ancora di moda (d’altronde il terreno è ben spianato per i sequel), e che in un modo o nell’altro lo scaltro Michael ce la fa sempre, anche se la saga ha ormai detto tutto. Probabilmente aveva già esaurito gli argomenti un paio di pellicole fa, e le goffe incongruenze “storiche” tra i vari film ne sono l’eclatante prova. In un certo senso però la vera forza di Transformers è proprio quella di sbatterti in faccia tutti i suoi difetti, e riuscire comunque ad uscirne a testa alta. Il 28 giugno 2018 uscirà il sesto capitolo: in quel periodo inizia a fare veramente caldo, torna l’estate, si è più spensierati… voi avete impegni? Io ho già i popcorn in mano! [In basso il trailer italiano del film, anche in HD!] In pochi avranno sentito parlare di The Other Side of the Door, produzione anglo-indiana che ha visto la luce nelle (poche) sale italiane dal 21 aprile 2016; alla regia troviamo Johannes Roberts, cineasta non nuovo agli horror ed attualmente nelle sale con 47 metri.La storia si svolge nella suggestiva e caratteristica India ed ha come protagonisti Maria e Michael. Maria (Sarah W. Callies) è scossa, frustrata, sconsolata, e se in un primo momento il suo stato d'animo potrebbe essere giustificato con la decisione del marito di stabilirsi definitivamente in India (vorrei ben vedere) poco dopo si scopre la verità: il loro figlio Oliver è morto, e in famiglia sono rimasti in tre, con la secondogenita Lucy. E' passato del tempo ma per una mamma, si sa, è quasi impossibile lasciarsi alle spalle una perdita simile, questo fino a quando la loro domestica Piki non le suggerisce un modo per parlare un'ultima volta con suo figlio, così da permetterle di superare definitivamente il lutto... come ampiamente pronosticabile, non tutto andrà come previsto. Diciamolo, non è difficile immaginare che tutto quello da non fare verrà fatto, e se così non fosse metà delle pellicole di genere non esisterebbero. The Other Side of the Door chiaramente non ha particolari pretese, ma almeno pare sforzarsi nel non voler essere l'ennesimo mediocre horrorMovie-stereotipato, e lo fa alternando convenzionali -e per certi versi inevitabili- luoghi comuni a discrete trovate. Alcune reazioni che i bambini hanno negli horror ad esempio, come il non spaventarsi di fronte a fenomeni poltergeist, rimarranno sempre un mistero, ma per fortuna il regista ha anche altro da offrire...e non solo grazie ai piccoli protagonisti, che da sempre turbano maggiormente gli spettatori in pellicole analoghe. Infatti, tra cultura hindù, riti vudù di Kingiana memoria (Pet Cemetery), indigeni che sembrano usciti direttamente da The Green Inferno, ed una fotografia crepuscolare più che apprezzabile, Johannes Roberts riesce a regalare più di qualche brivido, e talvolta anche in momenti inaspettati e non scontati. L'ambientazione Indiana e le leggende locali in questione avrebbero forse meritato un approfondimento ed un'introspezione maggiore, così come anche la caratterizzazione dei due protagonisti, essenziale ma ridotta all'osso; il che rende parzialmente The Other Side of the Door un'occasione sprecata. Ma in fondo ciò di cui stiamo parlando è un film a basso budget, che nei suoi 90 minuti in un modo o nell'altro deve riuscire a dire tutto ciò che può, cercando di non risultare confusionale o nel peggiore dei casi, risibile. Il risultato finale è una pellicola tutto sommato godibile e non esclusivamente riservata ai patiti del genere. Quello in questione è un film che riesce ad intrattenere, un horror semplice che, seppur pervaso a tratti da quella sensazione di “già visto”, riesce a rendere perlomeno interessante un soggetto senz'altro non annoverabile tra i più originali. Assolutamente nulla di indimenticabile, ma The Other Side of the Door merita la sufficienza per aver almeno provato a regalare qualcosa di nuovo; un qualcosa che alla fine si risolverà in una bella serata passata con la giusta dose di tensione. (In basso il trailer italiano del film anche in HD!) |
#angolodelTacUn angolo fazioso dove trovare recensioni di film, serie tv...ecc rigorosamente NO SPOILER! @rchiviRecensioni
Gennaio 2019
Categorie |