[In collaborazione con gli amici di www.nerdevil.it !] Non è mai facile parlare in maniera neutrale ed asettica di Rocky o di qualsiasi cosa ad esso collegata, invece è semplicissimo se lo si fa col cuore, con lo stesso linguaggio col quale Sylvester Stallone ci ha raccontato la “sua” storia in questi ultimi 40 anni. È semplicissimo se lo si ama, ed è molto difficile che chi stia leggendo, magari dopo aver già visto Creed II, non abbia amato questo pezzo di storia del cinema. Chi insinua pigramente (a volte per sentito dire) che il primo Creed sia una copia del primo Rocky, azzardando di conseguenza un paragone tra questo sequel e Rocky IV, non solo non ha mai capito lo spirito della saga creata da Stallone, ma forse neanche il cinema in sé. [In collaborazione con gli amici di www.nerdevil.it !] Detto ciò, ecco che ritroviamo un Adonis Creed maturo, con Bianca e lo “zio” Rocky sempre al suo fianco, pronto a diventare campione del mondo. Sarebbe il massimo, se non fosse per il ritorno di quelfantasma del passato (non solo del suo), che si fa vivo a muso duro proprio all’apice della sua carriera, e non a caso. Sapete tutti di chi si sta parlando: quel gigante russo chiamato Ivan Drago, che stavolta getterà nella mischia il figlio Viktor (se possibile, ancor più possente del padre) per creare scompiglio nella “famiglia” Creed-Balboa. Troppo facile dopo 30 anni creare il solito effetto nostalgia al ripalesarsi sullo schermo del più celebre ed iconico degli avversari storici di Rocky, difficile renderlo credibile e scevro da banalità, ma ancora una volta il franchise si dimostra maturo e coerente. Si potrebbe dire che nulla è cambiato, ma allo stesso tempo tutto è diverso: come già detto sono trascorsi più di 30 anni, l’Unione Sovietica non esiste più e la Russia non appare fredda e tetra come in passato. Nessuna metafora sulla Guerra Fredda stavolta, ma solo la sete di vendetta di un uomo che ha serbato rancore da quando venne sconfitto a Mosca davanti al suo pubblico e perse tutto, moglie compresa. Ivan carica tutti questi sentimenti e le speranze di rivalsa su Viktor, che dagli sguardi che rivolge al padre sembra quasi volergli dire “Perché io? Cosa c’entro?”, ma va avanti per la sua strada proprio per l’affetto che nutre per quell’uomo che l’ha cresciuto da solo, nell’odio e nella vergogna. Proprio come successe al suo genitore, anche Viktor Drago risulta essere (volutamente) un burattino “costruito” a dovere, i cui fili sono mossi proprio dalle mani del padre, ma con grande sorpresa potremo scoprire che anche Ivan il terribile ha un cuore ed è maturato, saggiamente memore di ciò che accadde a lui. Dopo tutti questi anni si è riusciti a dare una certa profondità anche al personaggio interpretato dall’inossidabile Dolph Lundgren, nonostante non manchino quei momenti in cui risulterà inevitabilmente detestabile. All’angolo opposto del ring, invece, i personaggi risultano maggiormente approfonditi, con una loro naturale evoluzione, e il tutto è reso ancor meglio dalla chimica che li unisce (presente sin dal primo capitolo), che genera nuovi spunti di riflessione. Michael B. Jordan si conferma un buonissimo attore, fortemente espressivo nel suo dolore, nella sua rabbia, e ormai completamente immedesimato nella parte; per Sly parla ormai la sua storia, soprattutto quella inerente all’intera saga, senz’altro la sua migliore creazione. Ormai lui è Rocky, lo è sempre stato: quando si rivolge ad Adonis in realtà è lui che parla ai giovani, e quando scrive determinati dialoghi per il suo personaggio è lui che parla a sé stesso. Questa volta dietro la macchina da presa non troviamo più Ryan Coogler, ma il giovane Steven Caple Jr. che fortunatamente non fa rimpiangere il suo predecessore. Creed II infatti non tradisce lo spirito del precedente capitolo, tantomeno quello di tutta la saga. Come già detto è tutto cambiato: nel mondo, a Philadelphia, nella boxe, ma lo spirito e i valori sono quelli di sempre; c’è la famiglia (di Rocky, di Adonis, di Drago), c’è la rivalsa sociale, il riscatto personale… sarò esagerato, ma in questi film c’è la vita di tutti, storie di persone e famiglie dove in fondo la boxe è solo un affresco che fa da sfondo a tutto il resto. Nonostante l’iniziale ed inevitabile sensazione di già visto, Sylvester Stallone (c’è lui dietro la sceneggiatura) riesce ancora una volta a creare nuove dinamiche che rendono Creed II “diverso”, sia dal suo predecessore che da Rocky IV, diverso come lo sono tutte le 8 pellicole della saga. Certo, ovviamente non mancano i rimandi e le strizzate d’occhio al passato, ma in ogni film c’è qualcosa che li unisce in maniera viscerale, così come ci sono tante piccole differenze e sfumature che li rendono unici. Tanto per puntualizzare, se mai ce ne fosse bisogno, il film non ha davvero nulla a che fare con il quarto capitolo del 1985: gli sguardi di fuoco tra Rocky e Drago sono rimasti gli stessi, ma la pellicola non presenta similitudini né nella trama, né nello schema narrativo, né altro, anzi, riprende per alcuni versi un altro tassello della saga, ma meglio non dirlo per evitare spoiler. Così come la saga si è naturalmente evoluta, stesso analogo discorso è valido per le musiche, sulle quali vale la pena spendere qualche parola. Il celebre tema principale è ormai stato spodestato da quello del nuovo protagonista, ma non mancano certamente rimandi e variazioni, mai forzati, mai inutili, sempre ben contestualizzati (e galvanizzanti). Inoltre il fatto che Bianca (Tessa Thompson), la compagna del protagonista, sia nel film una cantante, è utile per fornire ancor di più una propria identità a questi sequel/spin-off. Creed II è senz’altro ciò che tutti i fan aspettavano ed ameranno, ma il suo pregio più grande è quello di riuscire a soddisfare sia i fan nati negli anni ’70, sia i millennials: perché? Perché quando un lavoro viene fatto con cognizione di causa, con esperienza e soprattutto (sarò banale) col cuore, e si hanno in mano personaggi ed interpreti di un certo calibro, è quasi impossibile non realizzare un ottimo lavoro; un lavoro che non ha nulla da invidiare al suo predecessore se non l’effetto novità (ed è molto). Da super fan della saga (se non ancora si fosse capito), nonostante il desiderio di vedere nuovi film analoghi fino alla fine dei miei giorni, nutro la speranza che questo possa essere l’ultimo capitolo, ed il motivo è molto semplice: Creed II chiude splendidamente, in 2 scorrevolissime ore, tutti i cerchi narrativi, dando una fine dignitosa, un punto d’arrivo e di maturazione a tutti i personaggi, soprattutto a Stallone. Sì, proprio al settantaduenne Sly, perché forse anche il vecchio Balboa ha bisogno di un ultimo, piccolo, ma fondamentale atto per maturare ancora e chiudere la sua storia come merita. P.S. Lo so, non ho parlato di scontri e botte (che ovviamente ci sono e mi hanno fatto letteralmente sudare in sala) ma, come ho già accennato, per me Rocky e Creed sono amore, passione, dolore, sofferenza, famiglia: sono vita… la boxe viene dopo. [In basso, il trailer del film in HD!]
0 Commenti
[In collaborazione con gli amici di www.nerdevil.it !] Voglio fare un gioco con voi. No, non sono Jigsaw e voi lettori non dovrete far nulla, tenteremo semplicemente un esperimento, qualcosa in cui forse non è mai riuscito nessuno: oggi proveremo a commentare un film DC senza nominare esplicitamente la concorrenza. Avete capito a chi mi riferisco. Ci riuscirò? Aquaman è il sesto film del DCEU (o Worlds of DC come pare sia stato ufficialmente chiamato) e riprende la narrazione dagli avvenimenti accaduti in Justice League (altro noto capolavoro). Il buon Arthur Curry è tornato a fare l’eroe nei mari senza volersi far troppo notare, ma raggiunto e spronato da Mera a recarsi ad Atlantide, verrà convinto da lei e dal fido Vulko ad intraprendere un viaggio per ritrovare il Sacro Tridente perduto del primo Re di Atlantide Atlan, così da fermare il fratellastro Orm ed evitare una guerra tra il mondo in superficie e quello marino. Tante le cose da dire, difficile in questo caso metterle in ordine, così faremo un po’ come questo film: butteremo tutto in un grande calderone, in ordine sparso. Iniziamo dai tanti spiegoni, a volte inseriti spezzando determinate sequenze, perché sennò non sapevano dove piazzarli. Il più esilarante è stato quello non necessario tra Aquaman e Vulko; i due stanno parlando della stessa identica cosa, solo che il primo crede sia leggenda, il secondo sa che si tratta di verità… ma dopo 2 secondi il personaggio interpretato da Willem Dafoe parte col narrare tutta storia: perché?! Certo, anche gli spettatori devono sapere, ma magari trovare un pretesto per farlo in maniera meno forzata sarebbe stato meno comico. L’abbiamo nominato, quindi parliamo di Willem Defoe, una delle note positive del film. Del resto un attore di un certo calibro come lui è sempre sinonimo di garanzia, peccato che il suo Vulko non abbia abbastanza spazio, o magari non quello che avrebbe meritato, nonostante ciò lui e il suo rapporto col protagonista, tra flashback e ringiovanimenti, sono sufficientemente approfonditi da permettere allo spettatore di affezionarsi al personaggio quanto basta. Di cattivi invece ne abbiamo ben 2, entrambi bisognosi di comunicare chi sono con i loro “Io sono Black Manta!”, “Io sono Ocean Master!”. Già, un po’ in stile cartoon. Il nemico numero uno è Ocean Master, nome di battesimo Orm, interpretato dal pupillo del regista James Wan, Patrick Wilson. In questo caso vale il discorso contrario fatto per Vulko: le sue motivazioni sono sì illustrate e tecnicamente valide, ma rimangono superficiali e mai particolarmente approfondite da permetterci anche solo di provare ad empatizzare con lui, scadendo un po’ nel classico “voglio conquistare il mondo”. Per carità, quantomeno nulla a che vedere col pessimo Steppenwolf di Justice League. Dall’altra parte abbiamo il Black Manta di Yahya Abdul-Mateen II, villain che riesce a non sfigurare malgrado il ruolo secondario: nonostante sia un criminale, quindi già dalla parte del torto, la sua sete di vendetta rimane comunque più avvincente di quella di potere di Orm, e dovendo scegliere chi rivedere in un sequel opterei sicuramente per lui. Black Manta è inoltre protagonista di una delle scene più spettacolari della pellicola, con un adrenalinico inseguimento nella nostra (perennemente stereotipata) Sicilia. Qui troviamo uno di quei – non tantissimi a dire il vero – guizzi registici di James Wan, che dal canto suo pare faccia il possibile per dare un minimo di autorialità al prodotto. Poi ci sono scene come la maestosa battaglia subacquea finale, che potevano rendere molto meglio e invece risultano abbastanza deludenti, anche per via di scontri tutt’altro che chiari. A proposito di Wan, è gia nota la sua polemica per la non candidatura agli Oscar della pellicola nella categoria dei migliori effetti speciali: caro James, capisco quanto tu voglia difendere a tutti i costi il lavoro che c’è stato dietro al film, ma per quanto effetti speciali tendenzialmente da videogame, alternati da ottime messe in scena e momenti imbarazzanti (un po’ come in Wonder Woman), possano essere anche spassosi, sgargianti e a tratti splendidi da vedere, siamo ancora lontani da una qualità compatibile con gli Oscar. Il tono della pellicola è scanzonato, leggero, normale pensare sia volutamente tamarro, soprattutto osservando trashate come un polipone che suona i tamburi o un tabellone luminoso con elencate le caratteristiche degli sfidanti durante il primo scontro tra Arthur e Orm. Non mancano buoni momenti comici, anche se lasciano perplessi alcune battute degne di un cinepanettone. Per carità, nulla di eccessivo, va tutto benissimo e si ride spensieratamente, ma questo non è nulla di tutto ciò a cui ci aveva preparato finora l’universo cinematografico DC, (nonostante già in Justice League ci fosse stata una svolta più leggera). Personalmente mi chiedo dove siano finiti i fan del dark Snyderiano che tanto esaltavano Man of Steelo Batman V Superman, bollando altre pellicole dello stesso genere come infantili, e che ora parlano di Aquaman come un capolavoro: non solo dovreste fare un ripasso di cinecomic (per non dire di Cinema), ma anche cercare un attimo di far pace col cervello. A dirlo è uno che nel suo piccolo ha apprezzato lo sforzo creativo di Snyder e digerisce con piacere pellicole come Aquaman, ma una volta che ci si è “schierati” non si può far finta di nulla e/o rimangiarsi la parola scadendo in una vergognosa incoerenza. La colonna sonora è un altro aspetto del film che mi ha lasciato interdetto: se dovessi definirla con una sola parola la scelta ricadrebbe senz’altro su “bipolare“. Si va da “It’s No Good” dei Depeche Mode ad una cover di “Africa” ad opera di Pitbull (che poi sono i pezzi che rimangono più impressi), passando per altri brani pressoché anonimi. Dulcis in fundo arriviamo ai veri protagonisti, Jason Momoa e Amber Heard, potenti stimolatori delle ghiandole salivari di maschietti e femminucce. Belli, bellissimi, lui scultoreo (tamarro), perennemente a petto nudo e pieno di tatuaggi, lei strafiga ma fine, affascinante, con in dotazione l’unica divisa/armatura scollata atlantidea. Fortunatamente i due risultano anche piuttosto amalgamati nei loro ruoli. Ma prima di proseguire è bene fare una puntualizzazione: ricordate quando in Justice League Aquaman e Mera avevano combattuto ad Atlantide (ah no, non era Atlantide perché il nostro eroe non c’era mai stato prima) per difendere la Scatola Madre da Steppenwolf? A quanto pare non si conoscevano. Ebbene sì, visto che in una delle prime battute del film lui si rivolge a lei dicendo “non so nemmeno il tuo nome” (ma seriamente?). Ridicoli errori di continuity a parte, sono loro due le vere star della pellicola, non solo per motivi estetici, ma per la buona alchimia, i bei giochi di sguardi e un rapporto sviluppato discretamente. Almeno per quanto li riguarda, lo spettatore riesce ad avere ben chiaro il quadro delle loro personalità e del loro background. Ma passiamo subito da un estremo all’altro, con quello che è forse il lato più triste di Aquaman, ossia Aquaman stesso. No, non sono bipolare come chi ha scelto la musica del film, il problema non è Momoa, ormai perfettamente immedesimatosi anima e corpo nel ruolo, ma la storia di Aquaman come eroe nel senso più classico del termine. Arthur Curry non ha un’evoluzione: come lo conosciamo all’inizio, così lo ritroviamo alla fine. Tutto ciò che ottiene è dovuto sempre alla spinta da parte di altri, ma soprattutto c’è un discorso di predestinazione che gli garantisce più facilmente il successo in alcune imprese. Dubito che l’intento degli autori fosse il seguente, ma il messaggio che passa (se si ha un anche solo un attimo di tempo per ripensare a quanto visto una volta usciti dalla sala) è: “non importa quanto ti impegni a raggiungere un obiettivo, se qualcuno è predestinato riuscirà comunque a sorpassarti e avere la meglio su di te con meno sforzi.” Piuttosto triste, ma magari sono io il pignolo. Eppure non me la sento di giudicare negativamente Aquaman. Nonostante i difetti, grazie anche alla regia di James Wan ed un evidente cambio di stile, con i suoi 143 minuti il film si lascia guardare senza particolari intoppi, divertendo ed entusiasmando. Non è un capolavoro come qualche fan troppo esaltato lo definisce, ma è senz’altro un buon cinecomic d’intrattenimento, che farà particolarmente breccia nello spettatore medio, complici anche gli scarni collegamenti agli altri film DC che lo rendono accessibile proprio a tutti. Aquaman è uno di quei polpettoni che si mangiano con gusto ed ingordigia fino all’ultimo boccone; sazia e lascia soddisfatti, almeno fino a quando non si pensa a quanto sia veramente deliziosa una fiorentina, o magari non si vadano a leggere tutti gli ingredienti sulla sua confezione, ma questo solo pochi lo fanno. Alla fine non si può dire che la Warner (in soldoni) stia facendo un brutto lavoro: ciò che sta provando a fare con buonissimi risultati (oltre un miliardo di dollari al box office mondiale) è accontentare il grande pubblico e non soltanto i fan DC più accaniti, che da un lato staranno esultando per i risultati, ma dall’altro potrebbero cominciare a sentire una prima piccola crepa nel cuore. Se dite il contrario, voi Snyderiani della prima ora che continuate a spalare fango su altri cinecomic, vi credo e mi sta più che bene. Semplicemente, non fate finta di nulla sul modo in cui è profondamente cambiato il corso della DC al cinema. Per quanto mi riguarda, io mi sento di dire: viva i Worlds of DC. (In basso il trailer del film!) [In collaborazione con gli amici di www.nerdevil.it !] Cinque pellicole in 10 anni dirette da Michael Bay ci avevano fatto credere che forse i film dedicati ai celeberrimi Transformers della Hasbro non potessero essere differenti da ciò che sono stati: grandi effetti speciali, scontri ed esplosioni a non finire, personaggi umani approfonditi quanto una pozzanghera sahariana e causa di cefalea una volta usciti dal cinema. Ora, chi vi scrive è nel suo piccolo un fan del buon Michael Bay, uno che gli riconosce un suo particolare stile (un po’ del cazzo sì, ma sono dettagli) ed un estimatore (nei limiti del caso) dei primi 2-3 film della saga, prima che il nostro beniamino tirasse fuori tutte le sue più grandi qualità per mandare totalmente in vacca l’intero franchise. Dunque, come continuare a portare i Transformers al cinema? Una volta scovato il problema (sorry, Michael… sigh) lo si mette tra i produttori e si chiama un regista fresco, più giovane, si spostano indietro le lancette della “continuity” della saga (ormai inesistente e martoriata fino all’inverosimile) e si tenta un riavvio. Così arriviamo al 2018, a solo un anno dalle 9 candidature ai Razzie Awards di Transformers – L’Ultimo Cavaliere, con la Paramount che tenta un ultimo colpo di coda con Bumblebee. Alla regia questa volta troviamo Travis Knight, che finora aveva diretto il solo ma molto apprezzato Kubo e la Spada Magica, per quello che agli occhi di tutti è il primo spin-off della saga. Siamo nel 1987, infuria la guerra su Cybertron, gli Autobot sono in ritirata e Optimus Prime spedisce il fido Bumblebee sulla Terra per formare un nuovo avamposto e proteggere i suoi abitanti nel caso di arrivo dei Decepticon; i cattivi arrivano e si mettono a cercarlo, ma lui nel frattempo ha perso la memoria e conosciuto la cara Charlie. La trama per molti versi non differisce eccessivamente dal primo capitolo del 2007, ma una delle poche cose certe del cinema è che non è importante quale storia si (ri)racconti, ma come, e Bumblebee lo fa in maniera completamente diversa rispetto a prima. Innanzitutto ci sono gli anni ’80, c’è la musica tipica di quegli anni, ci sono anche i cereali di Mr. T e sì, infuria ancora il clima da Guerra Fredda. Sopra ogni cosa però ci sono i Transformers, quelli veri, con un design tutto nuovo piacevolmente cartoonesco e riconducibile alla serie G1, che li rappresenta grandi ma non giganti, e finalmente c’è anche il nostro protagonista con le sembianze del maggiolinoche l’ha reso tanto celebre e riconoscibile. Ma tutto non sarebbe così diverso se dietro la macchina da presa Travis Knight non avesse dato un’impronta totalmente rinnovata al tono e allo svolgimento della pellicola, semplicemente imparagonabile per stile ai precedenti. Bumblebee è una sincera storia d’amicizia tra due individui che hanno perso qualcosa, qualcosa che crea un vuoto talmente grande che forse solo insieme potranno colmare. Non è un caso (incredibile solo pensarlo) che i momenti migliori del film siano proprio quelli tra i due, dove imparano a conoscersi, a ritrovare loro stessi, dove lo spettatore a sua volta impara a conoscerli e a comprendere appieno i loro stati d’animo. Il loro rapporto prende chiaramente ispirazione da altre pellicole con analoghi tipi di protagonisti, ma nel complesso la possibile sensazione di già visto viene spazzata via dalla simpatia e dalla quasi commovente tenerezza che riescono ad esprimere i due. Da una parte abbiamo la bravissima Hailee Steinfeld nel ruolo di Charlie, una bella diciottenne mai volgare (qualsiasi riferimento a Megan Fox è puramente casuale), tosta ma fragile, che ha perso il padre ed è in rapporti non proprio idilliaci con il resto della famiglia; dall’altra abbiamo Bumblebee, in fin dei conti il caro vecchio robottone conosciuto fino ad oggi, ma confuso e spaesato sulla Terra dopo aver perso la memoria in battaglia, del quale riusciamo finalmente a scoprire qualche nuova sfaccettatura. In tutto questo c’è ovviamente anche spazio per le esplosioni (e non il contrario), con sequenze actionche fortunatamente non occupano più del 15/20% della durata totale, ma che hanno invece il pregio di essere chiare, dirette senza l’intenzione di bombardare, tramortire e rimbecillire lo spettatore: in una parola, BENE. Nessuna opera d’arte, ma un lavoro ben fatto. E dei cattivoni ne vogliamo parlare? Tutto sommato non sarebbe neanche strettamente necessario, non perché le spie Decepticon Shatter e Dropkick siano due macchiette o personaggi inutili ai fini della trama, anzi, si rivelano cattivi e spietati come forse visto poche altre volte nella saga. Non serve parlarne perché, per la prima volta nella storia cinematografica dei Transformers, non sono gli scontri e le esplosioni il fulcro del film. Per fortuna. Alla buon’ora. Nota di merito, inoltre, per aver saputo gestire egregiamente la presenza di John Cena, non di certo rinomato per le sue doti recitative. La parte praticamente gli calza a pennello e il minutaggio a lui dedicato è calibrato perfettamente non solo per le sue capacità, ma anche ma anche per fornire una minima e sufficiente caratterizzazione ed evoluzione al suo personaggio: tanto di cappello alla produzione. Insomma, vale la pena tornare in sala un’ennesima volta per vedere il sesto film sui Transformers? Sì, sì e altre dieci volte sì, perché questo non è il solito film su robottoni che spaccano e fanno esplodere tutto (il che può essere anche appagante… fino ad un certo punto), ma una storia d’amicizia dai toni a tratti quasi fiabeschi, ottimamente narrata. Una novità assoluta per il franchise, che adesso però deve i fare i conti con una continuity ancor più stravolta: sarebbe molto difficile, nonostante riferimenti e strizzate d’occhio alle pellicole precedenti, fare un completo elenco di tutte le incongruenze ed anacronismi presenti almeno in 4 dei 6 film della serie. Non si capisce ancora del tutto se Bumblebee voglia rappresentare uno spin-off, un prequel o un reboot totale della saga. La risposta del pubblico, e per la prima volta anche della critica, però è stata molto chiara: vuoi un consiglio spassionato, Paramount? Un bel colpo di spugna e avanti tutta con questo nuovo corso: i più neanche se ne accorgeranno e i fan di lunga data non potranno che esserne felici. ...ma ricordate sempre che Michael Bay occuperà sempre un posticino speciale nel nostro cuore! <3 (In basso il trailer del film!) [In collaborazione con gli amici di www.nerdevil.it !] Diciamoci la verità: qualcuno sentiva la mancanza di un film dedicato ai Predator, soprattutto dopo l’inconsistente (seppur discreto) Predators del 2010 con protagonista Adrien Brody? Tendenzialmente… no, MA se dopo otto anni Shane Black decide di prendere in mano un progetto del genere, forse la speranza di vedere qualcosina di nuovo in questa Hollywood che tra remake e reboot pare aver smarrito la vena creativa, c’è. Sarà riuscito a portare una ventata d’aria fresca al franchise di Predator? Scopriamolo. The Predator è la storia del cecchino McKenna (Boyd Holbrook), che dopo essere venuto a contatto con un Predator (per l’appunto) viene fatto passare per pazzo e messo insieme ad un gruppo di ex-marine con più di qualche rotella fuori posto, ma non prima di essere riuscito a spedire di soppiatto al suo domicilio alcuni oggetti alieni, come prova del contatto. Come di consueto qualcosa in una base militare non andrà per il verso giusto e i nostri (anti)eroi saranno portati ad unirsi alla scienziata Casey Bracket (Olivia Munn) con conseguenti fughe ed inseguimenti. È bello, sin dalle prime, credere che McKenna possa essere identificato come la testa calda di questo gruppo improvvisato, ma non appena si fa la sua conoscenza ci si rende conto di quanto in realtà sia il più “normale”… e di quanto ci sarà da divertirsi! Nebraska (Trevante Rhodes), Coyle (Keegan-Michael Key), Baxter (Thomas Jane), Lynch (Alfie Allen) e Nettles (Augusto Aguilera) sono tutti caratterizzati quanto basta per renderli “follemente amabili”, con interazioni non banali e costruite col giusto criterio che una pellicola del genere richiede. Si ride molto e di gusto (il paragone Predator/Whoopi Goldberg forse sarà scontato, ma a me fa scompisciare). Si ride perché la giusta dose di trash volontario, unita al sapore anni ’80/’90 che inebria il tutto, erano quello che ci voleva per dare nuova linfa al franchise. La storia, inoltre, al contrario del suo già citato predecessore fornisce collegamenti concreti e forti con i primi due film, riuscendo a dare una nuova direzione alla saga e ad espanderla, dopo quasi 30 anni (ovviamente senza contare i due spin-off/crossover con la saga di Alien). C’è anche un bambino, McKenna Junior (Jacob Tremblay), e contrariamente a quanto visto in film come Iron Man 3 (chi non ha odiato quel bambino?), Shane Black e soci hanno scritto il personaggio in maniera tale da renderlo funzionale alla trama, inserendolo perfettamente in un contesto se vogliamo “attuale” e per nulla scontato. Ricapitolando, abbiamo un manipolo di scalmanati capitanato da un Boyd Holbrook ormai pronto per recitare nel ruolo del protagonista, una bella Olivia Munn scienziata che non si limita alla parte della donzella da salvare, un bambino non fastidioso e ben incastrato nelle dinamiche della trama, cosa manca? Beh sì, mancano loro, i Predator, e questa volta la posta in palio triplica con i cani-Predator e il “Super” Predator (non è uno spoiler, si vede anche nei trailer). Esagerato? No, in quanto tutti a loro modo risultano utili allo svolgimento della narrazione senza sembrare nuovi elementi buttati lì a caso: nuove figure che vanno ad ampliare con un micro-universo ormai stantio, che aveva bisogno di nuove accelerate narrative, ed è ovviamente grazie a loro che la pellicola si macchia di rosso, molto rosso, con sangue a fiumi che schizza in ogni dove. Fermi tutti, non si sta descrivendo un film splatter, ma determinate storie richiedono richiedono la giusta dose di sangue e in questo caso non manca affatto (capito, Venom?). Naturalmente non si sta parlando del Quarto Potere della fantascienza, tutt’altro, e non mancano le solite piccole forzature di sceneggiatura, unite ad una CGI che con le new-entry aliene non può replicare l’ottimo lavoro di make-up fatto con il Predator “originale”. Insomma, bene ma non benissimo. Ma ciò che la fa fare fuori dal vaso al film è il finale: pardon, non il finale, ma un’ultima scena che dal simpatico trash volontario scade tutt’a un tratto nella tamarraggine alla Asylum (no vabbè, forse ho esagerato). È lampante l’intenzione di creare un solido ponte per eventuali sequel, e ci sta… ma probabilmente c’erano anche altri modi per farlo, ed è lecito avere il dubbio che tale idea possa non essere frutto della mente del regista, quanto piuttosto dalla produzione. La regia di Shane Black riesce in una buonissima gestione dei tempi e, salvo piccole sbavature, se la cava molto bene anche nelle scene d’azione e di combattimento, inserite in una doppia ambientazione città/foresta che contribuisce anch’essa a creare nel suo piccolo un senso di novità. Menzione particolare va inoltre alle musiche, vivaci e sempre pertinenti, in grado non solo di dare ritmo all’intera pellicola, ma anche il giusto slancio in determinate sequenze. Insomma, The Predator è nient’altro che un B-movie girato come si deve, con il giusto concentrato di trashume, azione, sangue e ironia, una sceneggiatura che oltre a riservare qualche piccola sorpresa punta anche a dare un senso di innovazione al franchise ed un gruppo di protagonisti talmente idioti e caciaroni che è impossibile non affezionarcisi (certo, chi più chi meno). Ma il suo pregio principale è senza dubbio quello di non prendersi sul serio. Nonostante tutto il film sta dividendo critica e pubblico, e in tutta sincerità le motivazioni di queste spaccature mi sono piuttosto oscure. Dubito le aspettative fossero chissà quanto alte, quindi sul serio: cosa diavolo ci si aspettava dal quarto capitolo di una saga che aveva quasi completamente perso il suo smalto? Avanti tutta Shane! Avanti tutta schifosi mostri alieni! (In basso il trailer del film!) Era il 2013 quando, tra un Transformers ed un altro, e un anno prima che Godzilla (2014) rilanciasse il Monster Universe, approdava nelle sale Pacific Rim. Quello che aveva tutte le carte in regola per essere l'ennesima baracconata “robottoni vs mostri giganti” invece, nel suo piccolo riuscì a sorprendere, merito soprattutto di un certo Guillermo Del Toro (non a caso fresco di oscar per The Shape of Water) che donò autorialità ad un soggetto del genere, riuscendo a dare un certo spessore alla lotta tra jaeger e kaiju. Sono passati 5 anni ed un qualsiasi buon successo commerciale ha diritto al suo sequel: Pacific Rim: La Rivolta riprende la storia ben 10 anni dopo gli avvenimenti del primo e troviamo un mondo cambiato, che si è ormai rimesso in moto dopo i disastrosi eventi passati, ma che continua ad addestrare giovani reclute in preparazione di un eventuale ritorno dei nemici numeri uno. Ritroviamo parte del vecchio cast come Rinko Kikuchi (Mako), Charlie Day e Burn Gorman unito ad importanti new entry, come John Boyega (il Finn dei nuovi Star Wars) e Scott Eastwood. Protagonista di questa nuova storia è proprio la star del momento John Boyega nei panni di Jake, il figlio di Stacker Pentecost (Idris Elba), uno dei più celebri eroi della vittoria di 10 anni prima; ma Jake non è come suo padre (e questo ci tiene bene a precisarlo) e vive da ex soldato debosciato e disilluso. Per fortuna ci pensa la sorellastra Mako a riportarlo sulla retta via insieme alla giovanissima Amara (Cailee Spaeny) proprio quando una nuova e diversa minaccia sta mettendo in pericolo la Terra. Inutile girarci attorno, l'assenza di Del Toro si sente, ma non è di certo il divario che caratterizzò (tanto per citare un esempio) i Batman di Tim Burton da quelli di Joel Schumacher: la differenza c'è , ma l'impegno del buon Steven DeKnight alla regia (showrunner della prima stagione di Daredevil) di certo non fa gettare tutto alle ortiche. Col l'assenza di un concreto nemico, quelle che si creano sono fazioni e rivalità tra gli uomini, tra compagnie, tra nuove e vecchie reclute, il più semplice ed efficace dei metodi per fare la conoscenza di tutti i personaggi, a dir la verità nessuno dei quali particolarmente caratterizzati (compresi quelli primari); personaggi vuoti, piatti? No, semplicemente trattati con relativa leggerezza. La trama di questo secondo capitolo è invece una parziale sorpresa: nulla di trascendentale, sia ben chiaro, ma Pacific Rim: La Rivolta, nonostante alcune scelte narrative (addirittura morti) pilotate ed alquanto prevedibili, e dovuti approfondimenti psicologici solamente accennati rispetto al suo predecessore, riesce a regalare qualche buono spunto e sorprendere lo spettatore. La sensazione che si ha dopo l'intera prima parte è quella di non sapere in che direzione stia andando la pellicola, salvo poi diventare tutto più chiaro con un inaspettato colpo di scena, ma la notizia è un'altra: nella citata prima parte la presenza dei kaiju è ridotta all'osso, a testimonianza del fatto che non si sia voluto puntare tutto soltanto su mirabolanti botte da orbi. L'azione c'è, ma è la narrazione nel complesso a risultare semplice ma ben scritta e fruibile per tutta la sua durata, senza rilevanti punti morti (Michael Bay, fai un ripasso...). A farne le spese è però il simpatico duo formato dal Dottor Geiszler e dal Dottor Gottlieb, ripensandoci, probabilmente uno dei piccoli punti di forza del primo capitolo: sempre rilevante la loro presenza ai fini della storia, ma non presenti come ci si sarebbe aspettato. Ma la differenza più grande con la pellicola di 5 anni fa risiede nell'estetica, e nello specifico in una fotografia che ha abbandonato i tipici tratti dark di Del Toro, per far spazio ad una più luminosa e sgargiante: questo cambio repentino di stile sicuramente non ha giovato all'originalità del film, rendendo gli scontri, seppur spettacolari, chiari e magnificamente realizzati, delle copie di spezzoni dei vari Transformers. Negli jaeger di Guillermo del Toro si percepiva la fatica, la pesantezza e per certi versi la lentezza nei movimenti di questi bestioni di metallo, stesso discorso per i bestioni kaiju (come d'altronde la fisica insegna); questa volta invece più stranamente naturale, “leggero”, come d'altro canto lo è tutto il film. La distruzione che ci fu nella prima pellicola fu tanta, ma quella di questo capitolo potrebbe addirittura far invidia a Superman e Zod in Man of Steel (non a caso molti memorabili combattimenti del film del 2013 erano ambientati in mare aperto). In fondo non c'è poi molto da dire su Pacific Rim: La Rivolta; l'impegno nel non rendere questa saga una baracconata senza senso, c'è stato (Michael Bay, fai un altro ripassino...), quello tale da sfruttare al meglio le potenzialità che questo franchise aveva dimostrato di poter avere, meno. Il film di De Knight e il cast tutto, è giusto dirlo, fanno il loro lavoro: raccolgono una buona storia, la portano avanti discretamente e la incanalano verso possibili sèguiti di cui si sta gia iniziando a parlare, tutto senza particolari sforzi. Ciò che non è riuscito a questo sequel è stato quello di evitare quella sensazione di dejavù che sembrava inevitabile già nel primo capitolo, sovvertendo poi le aspettative. Pacific Rim: La Rivolta è questo: la pellicola che tutti si sarebbero aspettati 5 anni fa. Veramente difficile questa volta non provare quella sensazione di “già visto”, ma d'altronde non si può avere sempre tutto e in tempi come questi, nel suo genere, una pellicola come questa risulta un prodotto tutto sommato soddisfacente, soprattutto per le grandi masse; dopotutto, poteva andare a finire come Independence Day:Rigenerazione... pericolo scampato. [In basso il trailer finale del film, anche in HD!] |
#angolodelTacUn angolo fazioso dove trovare recensioni di film, serie tv...ecc rigorosamente NO SPOILER! @rchiviRecensioni
Gennaio 2019
Categorie |