“Non ho iniziato io questa guerra… ma la finirò.” Ebbene sì, per quanto il leader delle scimmie Cesare si sia sforzato di scongiurare un conflitto, il corso degli eventi ha portato ad un epilogo che era ormai diventato inevitabile. Sono passati 2 anni dagli avvenimenti di Dawn of the Planet of the Apes e 15 dalla diffusione di quello che è ormai conosciuto come il “virus delle scimmie”; gli schieramenti erano già pronti, ma ciò che non era noto era quale sarebbe stato il casus belli per questo scontro totale. Matt Reeves torna di nuovo dietro la macchina da presa e riprende in mano la storia di questo nuovo mondo post-apocalittico (dopo il primo capitolo diretto da Rupert Wyatt) presentando una pellicola bellica a 360°; il regista mostra come la guerra non sia fatta solo di esplosioni e bombardamenti (chissà come avrebbe diretto Michael Bay una pellicola del genere…), ma di faide interne, contraddizioni e conflitti psicologici. Fin dalle prime battute risulta difficilissimo non stare dalla parte delle scimmie, quando la fazione opposta è rappresentata dal lato umano più basso, vile e guerrafondaio, ma sono veramente tutti corretti i comportamenti del loro capo? Koba è morto, ma la sua presenza aleggia costantemente durante la pellicola come un fantasma del passato, ponendo Cesare di fronte ad incubi, tormenti ed un terribile dilemma: “…e se stessi diventando proprio come lui?” Il leader delle scimmie, interpretato ancora una volta magistralmente da Andy Serkis, affronterà un lungo viaggio animato dalla vendetta per (ri)scoprire se stesso, tra lande ghiacciate e zone di guerra, ma fortunatamente non sarà da solo. I fedelissimi Maurice, Rocket e Luca infatti non lo abbandoneranno, e i quattro faranno inoltre la conoscenza di due interessanti personaggi: il simpatico “scimmia cattiva” – un loro simile che durante la vita in gabbia è stato sempre apostrofato così – e una piccola umana incapace di parlare trovata in un villaggio abbandonato, rinominata da loro Nova (probabilmente per i fan della vecchia pentalogia questo terzo capitolo risulterà quello con più riferimenti e “tributi” alle pellicole del passato). Dall’altra parte della barricata vi è invece “Il Colonnello” Woody Harrelson, cattivo annunciato che già dai primi trailer strizzava l’occhio al Marlon Brando di Apocalypse Now; spietato, dispotico, con idee e convinzioni solo superficialmente motivate che non perdono tempo prima di degenerare in pura follia. Il Colonnello McCullough non lascia scelta allo spettatore: impossibile stare dalla sua parte ed empatizzare con lui, a conferma dell’intenzione del franchise di identificare il genere umano, fatte rarissime eccezioni, come unica causa dei propri mali. Ciò che rappresenta (senza andare troppo nello specifico per evitare spoiler) è l’efferatezza che ha sempre contraddistinto l’uomo in tutti i conflitti della sua storia, con crudi rimandi alle grandi guerre del secolo passato: insomma, è la Storia che inesorabilmente e tristemente si ripete. In War for the Planet of the Apes (odio totalmente le traduzioni italiane adottate per questa trilogia!) nulla è lasciato al caso, a partire dai nuovi personaggi introdotti: Colonnello, scimmia cattiva e Nova; ognuno di loro viene sufficientemente approfondito, ognuno avrà un suo preciso scopo ai fini della storia e qualcuno sarà anche in grado di farci sorridere, ma senza stravolgere l’equilibrio di una pellicola di chiara impronta seria e riflessiva. La costruzione di molti rapporti fa di necessità virtù la vera e propria incapacità di dialogare di molti interpreti, soffermandosi su primi piani, mimiche e gesti che rendono le parole superflue. Ne è un perfetto esempio il legame tra l’orangotango Maurice (presente sin dal primo capitolo) e la piccola Nova, talmente chiaro e sincero da risultare efficace anche senza dialoghi. Altre gradite sorprese arrivano dal lato tecnico, con un fotografia grigia in perfetta sintonia col tono della pellicola e con location umide e innevate, ma soprattutto una colonna sonora che alterna il “nuovo” a musiche che hanno come palese ispirazione le pellicole della saga originale; come già detto, è forte in quest’ultimo capitolo l’influenza delle pellicole analoghe degli anni ’60 e ’70. L’ultimo (?) atto di questa coinvolgente trilogia non è perfetto, ma ci si avvicina; è giusto evidenziare la “fortunata” sincronizzazione di alcuni eventi chiave nella sceneggiatura, ma è bene passarci sopra a fronte di altrettante intelligenti trovate, ma soprattutto al cospetto di una Regia (con la R maiuscola) in grado di gestire ottimamente un dramma bellico di 142 minuti carico di tensione, emozionante e struggente. War for the Planet of the Apes è la degna conclusione di una trilogia già molto apprezzata oggi, che certamente continuerà ad essere amata dalle prossime generazioni; senza dubbio e senza azzardo uno dei migliori e più maturi blockbuster della stagione, oltre a rappresentare la consacrazione come “motion capture-man” (semmai ce ne fosse ancora bisogno) e non solo, di Andy Serkis. Il suo Cesare ci ha intenerito, esaltato, commosso, entusiasmato, risultando uno dei personaggi più coinvolgenti e memorabili degli ultimi anni… impossibile fare di meglio. Allora diciamolo senza timore: DATE UN OSCAR A QUESTA SCIMMIA! (In basso, il trailer in HD della pellicola!)
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[In collaborazione con gli amici di www.nerdevil.it!] È dura tornare alla vita di tutti i giorni dopo essere stati all’apice, dopo aver esaudito un sogno, e lo è ancor di più quando si hanno 15 anni e si è combattuto assieme ad alcuni dei più grandi supereroi della Terra. Questa è la storia di Peter Parker, un liceale reclutato da Iron Man in persona per la Civil War in terra tedesca e tornato alla vita tra i banchi di scuola e le mura di casa di tutti i giorni, con relativi problemi al seguito. Riprendersi e tornare con i piedi per terra dopo l’esperienza di Berlino (ma soprattutto col tecnologico costume donatogli da Tony Stark) non è semplice, e Peter non vede l’ora che suoni la campanella di scuola per svolazzare tra i tetti. Il ragazzo vuole fare del bene, vuole ancora dimostrare a Mr. Stark di poter essere un membro degli Avengers, lo vuole davvero tanto… forse troppo, e la comparsa di un pericoloso trafficante d’armi aliene non faciliterà affatto le cose. Senza entrare troppo nei particolari è grossomodo questa la trama di Spider-Man: Homecoming, ed è chiara fin dall’inizio la differenza tra questa trasposizione cinematografica (ricordiamo, la terza negli ultimi 10 anni) e le precedenti, essendo questa immersa appieno nelle dinamiche dell’Universo Cinematografico Marvel, di cui è il 16° lungometraggio. Per la prima volta sul grande schermo si assiste alla vera vita scolastica di Peter Parker, un adolescente credibile (nonostante Tom Holland abbia 21 anni, checché se ne dica), a differenza dei soliti laureandi spacciati per tali; ci sono i classici corridoi di scuola, i laboratori, le gite, il ballo di fine anno e tanti ragazzi. C’è anche un “bullo”, il solito Flash Thompson, ma non meravigliatevi quando vedrete il Flash di Tony Revolori: non è il prepotente palestrato anni ’90 che sbatte i loser contro gli armadietti della scuola, ma un bulletto odierno, un DJ fighetto che si diverte a fare il grande con l’Audi del papino. Al passo coi tempi e non stereotipato, come non lo sono il migliore amico Ned (Jacob Batalon) e la nuova arrivata Michelle (Zendaya), comprimari del protagonista in grado di ritagliarsi il proprio spazio senza esuberi e senza scadere nella figura di macchiette. Discorso analogo anche per Liz (Laura Harrier), prima cotta di Peter, il cui rapporto con quest’ultimo non risulta affatto preponderante, anzi, va ad unirsi al quadro di quegli elementi che delineano le difficoltà di un ragazzo smanioso di fare del bene sia nelle vesti di vigilante che di ragazzo “normale”. Una delle paure derivanti dai numerosi trailer era quella dello spazio che avrebbero dedicato ad una figura di spicco come Tony Stark, ma fortunatamente il pericolo è stato scongiurato; non solo il minutaggio del miliardario/playboy/filantropo è stato ottimamente distribuito, ma il suo ruolo da mentore gli ha permesso di recuperare un po’ di simpatia dopo le vicende di Age Of Ultron e Civil War. Questa volta Zio Ben non c’è (nonostante venga indirettamente menzionato) e tocca Mr. Stark l’ingrato compito di indirizzare il ragazzo verso la retta via; non è fisicamente presente, pare trascurarlo, ma Robert Downey Jr. è bravissimo nella sua interpretazione e attraverso alcune espressioni e poche parole pronunciate col giusto tono, riesce a trasmettere allo spettatore i sentimenti che prova per Peter. È stato lui a spronare il ragazzo e adesso è lui a doverlo tenere a freno; a lui l’ingrato compito di dover usare il bastone e la carota. A fargli compagnia ritroviamo anche Happy Hogan, spassoso e fintamente burbero come non mai, interpretato come al solito da un Jon Favreauperfettamente calato nella parte. Non sarebbe un film sui supereroi senza un villain, e nonostante la Marvel ci abbia abituato a cattivi mai particolarmente convincenti (a parte rari casi), questa volta pare essere riuscita ad invertire la tendenza. Non è esagerato affermare che l’Adrian Toomes/Avvoltoio di Michael Keaton sia uno dei villain meglio riusciti dell’MCU: non gode di un background troppo approfondito, ma ciò che viene mostrato allo spettatore è quanto basta per giustificare le sue azioni. È chiara la sua collocazione storica all’interno degli eventi delle precedenti pellicole, abile la maniera per non renderlo risibile (il look dell’Avvoltoio cartaceo sarebbe stato a dir poco inappropriato), ed è risultata sensata la scelta di un cattivo mai visto sul grande schermo che nei fumetti ha però accompagnato le prime avventure dell’arrampicamuri. Non è difficile capire perchè gli Avengers o lo SHIELD non intervengano per fermarlo: Adrian Toomes non ha nulla a che fare con la distruzione o la conquista della Terra, lui si muove nell’ombra, in silenzio, facendosi notare il meno possibile ed in questo modo riesce perfettamente ad integrarsi a quel microcosmo urbano che coinvolge principalmente eroi come Spider-Man. Insomma, questo Avvoltoio non risulterà memorabile per gli avvenimenti all’interno del MCU, ma è senza dubbio perfetto per questo Spider-Man: Michael Keaton riesce ad incutere timore anche senza indossare il suo “costume” e non è cosa da poco. Forse ci sono progetti futuri in serbo per lui? Abbiamo motivo di sperarlo. Spider-Man: Homecoming è sì l’ennesimo reboot, ma non il solito reboot; non è un film sulle origini del personaggio, ma sulla sua crescita, che di certo non è terminata dopo questi 130 minuti. Più di 2 ore di film che non si fanno sentire, con dialoghi e dinamiche che non scadono nell’infantile (e neanche troppo seriosi in stile Dawson’s Creek) ed una comicità leggera, senz’altro più giustificata rispetto ad altre pellicole analoghe, vista l’ambientazione e l’età dei protagonisti. L’azione è ben distribuita, ma soprattutto chiara, non confusionaria, nonostante le evoluzioni di Spider-Man rendano in alcuni momenti la CGI ancora un po’ troppo vistosa. Non si è ancora parlato del vero protagonista della pellicola, di colui che presta il volto ad uno degli eroi più amati di sempre: Tom Holland non è Tobey Maguire, non è Andrew Garfield e probabilmente non ha mai pensato di imitare né l’uno né l’altro. L’uomo ragno ha una lunga storia editoriale, è un personaggio cresciuto negli anni e dalle numerose sfaccettature: Holland ne ha portata sullo schermo un’altra, diversa dalle precedenti. Una cosa è certa: è fisicamente perfetto per interpretare un Peter Parker al liceo, e la sua ottima interpretazione ha dato modo al pubblico di vedere per la prima volta un “vero” quindicenne, un ragazzino ancora troppo acerbo per essere in grado di saper prendere subito le giuste decisioni. Discorso non differente per la Zia May Marisa Tomei, che a 53 anni suonati non è affatto troppo giovane per il personaggio: ciò che più conta non è la sua presunta avvenenza (pantaloni fin sopra l’ombelico e occhialoni da vista non possono essere definiti “sexy”), ma la sua capacità nell’interpretare una zia molto apprensiva e premurosa con il nipote. Spider-man: Homecoming non risulterà entusiasmante come i Guardiani della Galassiao visivamente ipnotico come Doctor Strange, ma è innegabile la sua buonissima fattura e regala più di un colpo di scena inaspettato; non è perfetto, non è esente da piccole forzature di sceneggiatura e non sarà “LA MIGLIORE PELLICOLA MARVEL” (come si urla ad ogni nuovo capitolo), ma è un film che non potrà non soddisfare il pubblico, lasciandolo con la curiosità di sapere come proseguirà l’evoluzione del protagonista. Jon Watts non punta all’epicità o alla grandiosità: è riuscito a privare l’ennesima trasposizione dell’uomo ragno di quella temuta sensazione di già visto senza voler strafare, facendo le cose col giusto tono e facendole bene. Non contava solo “riportare a casa” Spider-Man, ma farlo nel migliore dei modi: missione compiuta. [In basso il trailer del film, anche in HD!] Non sono necessarie più di 2 ore per narrare la storia di un’invasione aliena, o meglio, sarebbero anche necessarie, ma riuscire a farlo (bene) in 20 minuti è sinonimo di competenza. Neill Blomkamp non è nuovo nel realizzare cortometraggi (District 9 e Chappie stessi sono basati su suoi corti) ma soprattutto non è affatto nuovo alla fantascienza: tutte le sue opere si muovono all’interno di questo genere potenzialmente dai mille risvolti. Dopo la non bellissima ultima esperienza proprio di Chappie (2015), apprezzato dai più ma commercialmente (che è quello che oggi veramente conta) un mezzo flop, il giovane regista SudAfricano ha deciso di ripartire dal “basso”, creando la propria casa di produzione cinematografica e producendo dei corti; pieno controllo creativo, idee e tecniche sperimentali al servizio della fantascienza. Il primo frutto di questa affascinante iniziativa è Rakka, reso disponibile gratuitamente dal 16 giugno. La Terra è stata conquistata, gli uomini sono resi schiavi e sottoposti a terribili esperimenti, e i dominatori intossicano il nostro mondo per renderlo simile al loro; solo poche sacche di resistenza riescono di rado a difendersi e a contrattaccare, mantenendo viva una flebile speranza per il genere umano. Esiste un modo per poter capovolgere tutto? Tutto molto semplice, tutto già sentito, ma tutto realizzato con criterio ed ispirazione. La voce narrante di Sigourney Weaver (seguìta dalla solita impeccabile prova recitativa) introduce lo spettatore alla realtà di questa Terra che non ci appartiene più, controllata da creature aliene dal design simil-rettiliano senza scrupoli (strizzata d’occhio ai Visitors o ai complottisti?). Fotografia torbida, quasi sbiadita, sequenze di montaggio maiuscole, tanta (forse anche un po’ troppa) slow-motion ed effetti visivi talmente ben realizzati da far invidia a moltissimi prodotti -di dubbia qualità- che popolano il grande schermo. Questa è la visione futuristica e fantascientifica gia notà del regista: una Terra sporca, arida, polverosa, dove gli uomini ancora, nonostante tutto, non riescono ad essere uniti tra di loro, ma dove si intravede sempre e comunque un barlume di speranza. Lo stile di Neill Blomkamp è totalmente identificabile in questo primo cortometraggio, uno stile che ricorda molto il primo, bellissimo District 9 (quando ancora non sentiva il peso delle major), uno stile purtroppo leggermente scemato nelle 2 successive pellicole, che in questo caso torna ad essere ancor più crudo, senza timore di far vedere sangue e brandelli di carne volanti, ma con una sua eleganza visiva di grande impatto. Rakka racchiude in 20 minuti quello che probabilmente molti altri avrebbero espresso (magari anche male) attraverso un lungometraggio; sorprende, appassiona e attraverso un finale emotivamente in crescendo, riesce abilmente a far intendere quelle che potrebbero essere le sorti della storia…ma non senza lasciare lo spettatore con una incredibile voglia di vedere ancora altro, molto altro...ancora ed ancora! Se ciò che si è visto era classificabile come "esperimento", allora non è difficile affermare che sia perfettamente riuscito. (In basso il video di "Rakka", disponibile su youtube.) |
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Gennaio 2019
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