[In collaborazione con gli amici di www.nerdevil.it !] Voglio fare un gioco con voi. No, non sono Jigsaw e voi lettori non dovrete far nulla, tenteremo semplicemente un esperimento, qualcosa in cui forse non è mai riuscito nessuno: oggi proveremo a commentare un film DC senza nominare esplicitamente la concorrenza. Avete capito a chi mi riferisco. Ci riuscirò? Aquaman è il sesto film del DCEU (o Worlds of DC come pare sia stato ufficialmente chiamato) e riprende la narrazione dagli avvenimenti accaduti in Justice League (altro noto capolavoro). Il buon Arthur Curry è tornato a fare l’eroe nei mari senza volersi far troppo notare, ma raggiunto e spronato da Mera a recarsi ad Atlantide, verrà convinto da lei e dal fido Vulko ad intraprendere un viaggio per ritrovare il Sacro Tridente perduto del primo Re di Atlantide Atlan, così da fermare il fratellastro Orm ed evitare una guerra tra il mondo in superficie e quello marino. Tante le cose da dire, difficile in questo caso metterle in ordine, così faremo un po’ come questo film: butteremo tutto in un grande calderone, in ordine sparso. Iniziamo dai tanti spiegoni, a volte inseriti spezzando determinate sequenze, perché sennò non sapevano dove piazzarli. Il più esilarante è stato quello non necessario tra Aquaman e Vulko; i due stanno parlando della stessa identica cosa, solo che il primo crede sia leggenda, il secondo sa che si tratta di verità… ma dopo 2 secondi il personaggio interpretato da Willem Dafoe parte col narrare tutta storia: perché?! Certo, anche gli spettatori devono sapere, ma magari trovare un pretesto per farlo in maniera meno forzata sarebbe stato meno comico. L’abbiamo nominato, quindi parliamo di Willem Defoe, una delle note positive del film. Del resto un attore di un certo calibro come lui è sempre sinonimo di garanzia, peccato che il suo Vulko non abbia abbastanza spazio, o magari non quello che avrebbe meritato, nonostante ciò lui e il suo rapporto col protagonista, tra flashback e ringiovanimenti, sono sufficientemente approfonditi da permettere allo spettatore di affezionarsi al personaggio quanto basta. Di cattivi invece ne abbiamo ben 2, entrambi bisognosi di comunicare chi sono con i loro “Io sono Black Manta!”, “Io sono Ocean Master!”. Già, un po’ in stile cartoon. Il nemico numero uno è Ocean Master, nome di battesimo Orm, interpretato dal pupillo del regista James Wan, Patrick Wilson. In questo caso vale il discorso contrario fatto per Vulko: le sue motivazioni sono sì illustrate e tecnicamente valide, ma rimangono superficiali e mai particolarmente approfondite da permetterci anche solo di provare ad empatizzare con lui, scadendo un po’ nel classico “voglio conquistare il mondo”. Per carità, quantomeno nulla a che vedere col pessimo Steppenwolf di Justice League. Dall’altra parte abbiamo il Black Manta di Yahya Abdul-Mateen II, villain che riesce a non sfigurare malgrado il ruolo secondario: nonostante sia un criminale, quindi già dalla parte del torto, la sua sete di vendetta rimane comunque più avvincente di quella di potere di Orm, e dovendo scegliere chi rivedere in un sequel opterei sicuramente per lui. Black Manta è inoltre protagonista di una delle scene più spettacolari della pellicola, con un adrenalinico inseguimento nella nostra (perennemente stereotipata) Sicilia. Qui troviamo uno di quei – non tantissimi a dire il vero – guizzi registici di James Wan, che dal canto suo pare faccia il possibile per dare un minimo di autorialità al prodotto. Poi ci sono scene come la maestosa battaglia subacquea finale, che potevano rendere molto meglio e invece risultano abbastanza deludenti, anche per via di scontri tutt’altro che chiari. A proposito di Wan, è gia nota la sua polemica per la non candidatura agli Oscar della pellicola nella categoria dei migliori effetti speciali: caro James, capisco quanto tu voglia difendere a tutti i costi il lavoro che c’è stato dietro al film, ma per quanto effetti speciali tendenzialmente da videogame, alternati da ottime messe in scena e momenti imbarazzanti (un po’ come in Wonder Woman), possano essere anche spassosi, sgargianti e a tratti splendidi da vedere, siamo ancora lontani da una qualità compatibile con gli Oscar. Il tono della pellicola è scanzonato, leggero, normale pensare sia volutamente tamarro, soprattutto osservando trashate come un polipone che suona i tamburi o un tabellone luminoso con elencate le caratteristiche degli sfidanti durante il primo scontro tra Arthur e Orm. Non mancano buoni momenti comici, anche se lasciano perplessi alcune battute degne di un cinepanettone. Per carità, nulla di eccessivo, va tutto benissimo e si ride spensieratamente, ma questo non è nulla di tutto ciò a cui ci aveva preparato finora l’universo cinematografico DC, (nonostante già in Justice League ci fosse stata una svolta più leggera). Personalmente mi chiedo dove siano finiti i fan del dark Snyderiano che tanto esaltavano Man of Steelo Batman V Superman, bollando altre pellicole dello stesso genere come infantili, e che ora parlano di Aquaman come un capolavoro: non solo dovreste fare un ripasso di cinecomic (per non dire di Cinema), ma anche cercare un attimo di far pace col cervello. A dirlo è uno che nel suo piccolo ha apprezzato lo sforzo creativo di Snyder e digerisce con piacere pellicole come Aquaman, ma una volta che ci si è “schierati” non si può far finta di nulla e/o rimangiarsi la parola scadendo in una vergognosa incoerenza. La colonna sonora è un altro aspetto del film che mi ha lasciato interdetto: se dovessi definirla con una sola parola la scelta ricadrebbe senz’altro su “bipolare“. Si va da “It’s No Good” dei Depeche Mode ad una cover di “Africa” ad opera di Pitbull (che poi sono i pezzi che rimangono più impressi), passando per altri brani pressoché anonimi. Dulcis in fundo arriviamo ai veri protagonisti, Jason Momoa e Amber Heard, potenti stimolatori delle ghiandole salivari di maschietti e femminucce. Belli, bellissimi, lui scultoreo (tamarro), perennemente a petto nudo e pieno di tatuaggi, lei strafiga ma fine, affascinante, con in dotazione l’unica divisa/armatura scollata atlantidea. Fortunatamente i due risultano anche piuttosto amalgamati nei loro ruoli. Ma prima di proseguire è bene fare una puntualizzazione: ricordate quando in Justice League Aquaman e Mera avevano combattuto ad Atlantide (ah no, non era Atlantide perché il nostro eroe non c’era mai stato prima) per difendere la Scatola Madre da Steppenwolf? A quanto pare non si conoscevano. Ebbene sì, visto che in una delle prime battute del film lui si rivolge a lei dicendo “non so nemmeno il tuo nome” (ma seriamente?). Ridicoli errori di continuity a parte, sono loro due le vere star della pellicola, non solo per motivi estetici, ma per la buona alchimia, i bei giochi di sguardi e un rapporto sviluppato discretamente. Almeno per quanto li riguarda, lo spettatore riesce ad avere ben chiaro il quadro delle loro personalità e del loro background. Ma passiamo subito da un estremo all’altro, con quello che è forse il lato più triste di Aquaman, ossia Aquaman stesso. No, non sono bipolare come chi ha scelto la musica del film, il problema non è Momoa, ormai perfettamente immedesimatosi anima e corpo nel ruolo, ma la storia di Aquaman come eroe nel senso più classico del termine. Arthur Curry non ha un’evoluzione: come lo conosciamo all’inizio, così lo ritroviamo alla fine. Tutto ciò che ottiene è dovuto sempre alla spinta da parte di altri, ma soprattutto c’è un discorso di predestinazione che gli garantisce più facilmente il successo in alcune imprese. Dubito che l’intento degli autori fosse il seguente, ma il messaggio che passa (se si ha un anche solo un attimo di tempo per ripensare a quanto visto una volta usciti dalla sala) è: “non importa quanto ti impegni a raggiungere un obiettivo, se qualcuno è predestinato riuscirà comunque a sorpassarti e avere la meglio su di te con meno sforzi.” Piuttosto triste, ma magari sono io il pignolo. Eppure non me la sento di giudicare negativamente Aquaman. Nonostante i difetti, grazie anche alla regia di James Wan ed un evidente cambio di stile, con i suoi 143 minuti il film si lascia guardare senza particolari intoppi, divertendo ed entusiasmando. Non è un capolavoro come qualche fan troppo esaltato lo definisce, ma è senz’altro un buon cinecomic d’intrattenimento, che farà particolarmente breccia nello spettatore medio, complici anche gli scarni collegamenti agli altri film DC che lo rendono accessibile proprio a tutti. Aquaman è uno di quei polpettoni che si mangiano con gusto ed ingordigia fino all’ultimo boccone; sazia e lascia soddisfatti, almeno fino a quando non si pensa a quanto sia veramente deliziosa una fiorentina, o magari non si vadano a leggere tutti gli ingredienti sulla sua confezione, ma questo solo pochi lo fanno. Alla fine non si può dire che la Warner (in soldoni) stia facendo un brutto lavoro: ciò che sta provando a fare con buonissimi risultati (oltre un miliardo di dollari al box office mondiale) è accontentare il grande pubblico e non soltanto i fan DC più accaniti, che da un lato staranno esultando per i risultati, ma dall’altro potrebbero cominciare a sentire una prima piccola crepa nel cuore. Se dite il contrario, voi Snyderiani della prima ora che continuate a spalare fango su altri cinecomic, vi credo e mi sta più che bene. Semplicemente, non fate finta di nulla sul modo in cui è profondamente cambiato il corso della DC al cinema. Per quanto mi riguarda, io mi sento di dire: viva i Worlds of DC. (In basso il trailer del film!)
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Siamo nel 2104, sono passati 11 anni dagli avvenimenti di Prometheus (2012) ...e ne mancano 18 a quelli di Alien (1979); l'astronave Covenant trasporta migliaia di embrioni in direzione di un pianeta dalle caratteristiche idonee alla colonizzazione da parte degli umani. A causa di un'avaria l'equipaggio è costretto a interrompere il sonno criogenico: una volta svegliatosi intercetta un segnale radio da un pianeta molto vicino, anch'esso conforme come caratteristiche atmosferiche e precedentemente non individuato, e decidono di cambiare rotta. Come facilmente immaginabile, mancheranno le sorprese. Ridley Scott torna ancora una volta a dirigere quel mondo da lui stesso creato, e se da un lato riprende direttamente le fila interrotte di Prometheus, in questo nuovo capitolo tenta di riavvicinarsi alle atmosfere del primo indimenticabile Alien ...tenta. Ciò che di totalmente nuovo vi era nel suo predecessore, ossia la figura di questi Ingegneri che pare abbiano creato la vita sulla Terra (per poi volerla terminare), in Covenant viene inaspettatamente quasi accantonato, seppur rimangano in primo piano i temi ad essi attinenti riguardanti la creazione e la nascita della vita...con ripercussioni che coinvolgeranno non poco l'intero equipaggio. Ecco: l'equipaggio! Cosa dire dell'equipaggio della Covenant? Praticamente niente, visto che la caratterizzazione se non è nulla, ci va molto vicino; tant'è che verso la fine del film, quando riappaiono sullo schermo determinati personaggi, il primo pensiero è “ah si, c'erano anche loro!” . Anche per quanto riguarda la presunta protagonista Daniels (Katherine Waterson) -una sorta di brutta copia di Demi Moore in Ghost- c'è un piccolo background relativamente significativo, ma nulla più. Perchè “presunta” protagonista? Perchè il vero perno attorno al quale si muove tutto è Michael Fassbender, l'unico attore a fornire un'interpretazione degna di nota, qui ancora nelle vesti di David e del nuovo androide Walter. Sono questi i personaggi attraverso i quali si dipanano le tematiche fondamentali già nominate precedentemente, ed è proprio David ad avere un ulteriore approfondimento rispetto a Prometheus, tramite anche un'affascinante sequenza iniziale. L'azione è ben presente nella pellicola, ma probabilmente troppo alternata a stacchi dialogati e momenti più rilassati, creando così un'altalena di situazioni che vanno ad inficiare sulla tensione che Covenant vorrebbe trasmettere allo spettatore. Stessa alternanza si ha con l'ambientazione di determinate sequenze tra spazi aperti e spazi chiusi, che impedisce il ritorno al completo stile claustrofobico che caratterizzò i primi Alien; scelta atipica che potrà aver soddisfatto molti...ma infastidito altri. “Ci sono gli Xenomorfi??” è la domanda dello spettatore medio che rimase deluso dalla visione di Prometheus, e la risposta (intuibile anche dai trailer) è SI! In questo pare che Ridley Scott abbia voluto accontentare i fan (non che sia una cosa forzata, anzi!) anche se pare abbia stravolto quella biologia degli Xenomorfi che avevamo imparato a conoscere soprattutto nelle prime 2 pellicole; dove sono le “Regine”? Come vengono generate uova? Quanto dura l'incubazione?? Alcuni conti non tornano, e qui un dubbio potrebbe assalire lo spettatore: Ridley Scott ha ripreso in mano la saga di Alien per ricollegarsi ad essa... o per ricollegarsi solo ed esclusivamente al primo capitolo da lui diretto? Ad oggi mancano anche alcuni importanti elementi presenti nell'ottimo Aliens-Scontro Finale di James Cameron (come le già citate Regine): che il regista voglia rinnegare anche questo? Chissà perchè questo presunto attaccamento morboso verso la sua creazione lo abbia colto così all'improvviso dopo oltre 30 anni! Quello che sappiamo è che per rispondere anche a queste domande serviranno altre 1-2 pellicole, così come annunciato dallo stesso Scott; ma era davvero necessaria tutta questa “pre-saga”? In molti pensano di si...ma tanti altri pensano decisamente il contrario. Alien-Covenant risulta tutto sommato più godibile del suo predecessore e si lascia guardare con maggiore spensieratezza, ma il risultato finale è un film che rimane tutt'altro che impresso nella mente e nel cuore degli spettatori... lontano anni luce da ciò che il regista aveva in mente di riproporre: sono passati più di 30 anni, e si vede. (in basso il trailer del film, anche in HD!) [in collaborazione con il sito www.nerdevil.it] Prove di science-fiction per Denis Villeneuve che, in vista di ultimare il sequel di Blade Runner, si diletta per la prima volta nel cinema di genere affrontando un tema fin troppe volte sfruttato, visto e riciclato, tratto da un racconto di Ted Chiang: l’arrivo degli alieni sulla Terra. Nonostante ciò, il risultato è stato di gran lunga migliore del previsto. Dodici navette extraterrestri sono atterrate in diverse località mondiali: non è chiaro il motivo per cui siano arrivate qui, come non lo è quello del loro posizionamento geografico. Per avviare il primo contatto con i visitatori, nel sito del Montana vengono convocati il Colonnello Weber (Forest Whitaker) la linguista Louise Banks (Amy Adams) e il fisico Ian Donnelly (Jeremy Renner), come ovvio che sia i migliori nei loro rispettivi campi. Come si può facilmente osservare, il plot in questione non è dei più complessi, ma è il modo in cui il regista riesce ad approcciare e a portare avanti la storia a rendere Arrival un film di fantascienza diverso da tutti i suoi “simili”. Protagonista della storia è Louise, come già detto linguista e docente universitaria, malinconica e tormentata da episodi accaduti nella sua vita, magnificamente caratterizzata attraverso espedienti non verbali; basta guardarla mentre osserva quasi disinteressata i notiziari durante l’arrivo delle navicelle, o ascoltare il suo respiro carico di tensione dentro la tuta protettiva (durante il primo contatto) per comprendere i suoi stati d’animo, per renderci conto della passione che mette nel proprio lavoro e per immergerci nelle speranze che ripone dall’incontro con i visitatori. E’ proprio quest’ultimo uno dei messaggi della pellicola: la speranza. Speranza che probabilmente si auspica anche Denis Villeneuve, che, almeno nell’evenienza in questione, tutte le nazioni del mondo si ritrovino a collaborare insieme, fianco a fianco; speranza che gli alieni non siano tutti come quelli di Independence Day o di Mars Attack, ma che civilmente e, ahinoi, contrariamente all’animo dell’umano medio, si presentino qui per dialogare, conoscere, comunicare. E’ la comunicazione la prima “arma” di cui dovrebbero usufruire due specie senzienti in contatto per la prima volta per ottenere il bene comune, non il fuoco, non le minacce. Gli sforzi, da entrambe le fazioni, dovrebbero essere impiegati nel capire come comunicare, non come colpire e mettere K.O. lo straniero, e tale speranza viene egregiamente messa in luce da Amy Adams, ostinata e resiliente anche quando tutto sembra aver preso una brutta piega. Tra le caratteristiche più lodevoli che emergono da Arrival c’è senza dubbio il montaggio: il rischio di spoiler in questo particolare caso è molto alto, quindi mi limiterò a dire che esso rappresenta gran parte, se non addirittura la chiave di lettura, dell’intera pellicola. Sebbene “l’attrazione” principale (perlomeno per chi si basa solo su titolo e locandina) possano sembrare gli alieni, con le loro astronavi perfettamente ovali e picee, ciò che rimane di loro dopo la visione del film è ben poco. Nonostante la loro rappresentazione non proprio gradevole alla vista, non risultano spaventosi, non incutono timore, ma ciò che funziona è proprio questo: sono volutamente così, sono semplicemente il tramite, l’espediente per altre tematiche, messaggi e sensazioni più profonde e rilevanti che lasciano qualcosa nello spettatore dopo i 116 minuti passati in sala. Ciò che incute più timore è forse la paura della popolazione, la paura dell’uomo di fronte ad un qualcosa di potenzialmente ostile, il terrore che porta come al solito capi di stato e intelligence pronti sul piede di guerra al minimo segnale di pericolo. Il tutto è accompagnato da effetti sonori che lasciano il segno e da suoni gravi e quasi minacciosi attraverso i quali il regista pare voglia inizialmente spaventare lo spettatore, facendolo immedesimare nel clima di perplessità e tensione che si respira nella prima parte della pellicola. E’ difficile poter parlare di tutto ciò che veramente ci sarebbe da dire di un film come Arrival, soprattutto dopo una sola visione, ma una cosa è certa: siamo di fronte ad un film “diverso”, nel senso migliore del termine, un film che, appunto, merita di essere visto più di una volta, non perché non lo si sia capito, ma per poterlo apprezzare ancor di più. Non sarà di certo rivoluzionario, ma specialmente nella seconda parte risulta essere nettamente più di un “film sugli alieni”, è un dramma fantascientifico, una pellicola che, sfruttando un incipit tanto ridondante, riesce a prendere una direzione insolita ed inaspettata, regalando diversi spunti di riflessione allo spettatore. Se poi qualcuno dovesse entrare in sala aspettandosi l’ennesimo “giocattolone” alla Independence Day, stracolmo di esplosioni ed effetti speciali… beh, purtroppo (o per fortuna) si accorgerebbe di essersi fatto un’idea completamente sbagliata. (in basso il trailer del film, anche in HD!) Allied è uno di quei film di cui dovete leggere solo recensioni come questa, senza guardare il trailer. Davvero, non guardatelo! E' uno spoiler, vi ruba la suspance e lo stupore che sarebbe sicuramente in grado di regalare allo spettatore quest’ultimo film di Robert Zemeckis (regista tra gli altri, di Ritorno al Futuro, Forrest Gump e Cast Away, tanto per citarne qualcuno...) La trama (depurata dagli spoiler) è incentrata essenzialmente su un’impervia storia d’amore ai tempi della seconda guerra mondiale tra Max Vatan, comandante dell’aviazione canadese (interpretato dall’inossidabile Brad Pitt) e Marianne Beausejour (la sempre più diva Marion Cotillard), bella e letale spia in missione a Casablanca. La prima metà del film è, in effetti, un film di spionaggio senza infamia e senza lode, utile più che altro a presentare il contesto improbabile ed insospettabilmente violento che fa da sfondo al sorgere della passione irrefrenabile tra i due protagonisti. La complicità-competitività che si instaura tra i due (con tanto di notti in cui il buon Max viene mandato a dormire sul tetto, perché, santo lui, “così fanno i mariti a Casablanca”) aggiunge un po’ di pepe (e sabbia, poi capirete perché) al lineare incedere verso il momento clou di questa parte “spy” del film, rappresentata dall’eliminazione, da parte dell’affiatata coppia, del solito temibile nazista in visita a Casablanca. Casablanca che, con le sue atmosfere calde e i suoi corpi madidi di sudore, sembra il set ideale per infiammare gli animi dei protagonisti. È con lo spostarsi della storia dal Marocco alla placida e piovosa Londra che il primo “mini-film” di cui si compone Allied si conclude, a mo’ di atto teatrale, avendo tutto sommato efficacemente presentato i personaggi e le contingenze storiche. Viene così spazio al secondo atto, quello che indaga sulla love story in sé e (almeno così sembra) si distacca dal cinico mondo dello spionaggio militare. Un secondo atto più intimo, intenso, coinvolgente del primo, e che reca con sé una tensione ed un’ambiguità che dureranno sino al finale del film. È davvero possibile, per i due protagonisti, portare avanti una storia d’amore tra bombe, pareti di ospedali che crollano, aerei che cadono in picchiata sopra le case e la morte sempre dietro l’angolo? Ed è davvero possibile fidarsi l’uno dell’altro, quando quella stessa storia d’amore è nata nel corso di una messinscena orchestrata da Max e Marianne per apparire all’esterno come marito e moglie quando, in realtà, loro sono due micidiali spie in tempo di guerra? Il climax di Allied conduce ad un emozionante ed alquanto impronosticabile finale, che conferisce al film una dimensione più alta di quanto le premesse potessero far credere. Non un capolavoro ma un bel film, che nonostante la lunghezza oramai insolita (147 minuti) scorre via veloce, scandito da sequenze quasi auto-concludenti ma collegate: si è parlato di due atti, ma in realtà ve ne è un terzo, costituito proprio dal finale, su cui chiaramente non è il caso di dilungarsi per evitare di rivelare la sorpresa. Forse il tutto sarebbe potuto essere confezionato in un film più classico e più realistico (alcune scene, come quella dell’ospedale bombardato, possono apparire eccessive all’occhio di uno spettatore che cerchi verosimiglianza), ma sarà stata evidentemente una scelta registica di Zemeckis (con l’aiuto della fotografia particolarmente vivida di Don Burgess) quella di colorare il film con tratti digitali che lambiscono, visivamente le sponde del film d’animazione (un po’ come avvenuto nel recente The Walk, che presenta lo stesso stile grafico). Al netto di queste considerazioni rimane, comunque, la godibilità di una pellicola di livello, che ha ben saputo miscelare elementi da film d’azione, del film storico e del romance tormentato, con un Brad Pitt oramai fin troppo credibile nel ruolo dell’innamorato folle (e ad oltranza) ed una Marion Cotillard perfettamente a suo agio sia nelle vesti della femme fatale inafferrabile che in quelle della fragile vittima degli eventi. rece by Il Merlo (in basso il trailer del film, anche in HD) [in collaborazione con il sito www.nerdevil.it] Arrivata alla quarta stagione, la prima serie Marvel tratta dal Marvel Cinematic Universe ha deciso di adottare un insolito schema narrativo e di suddividere in 3 parti le 22 puntate di Agents of SHIELD. Questa scelta atipica potrà essere giudicata solo al termine della stagione ma, considerando l'inizio, potrebbe rivelarsi azzeccata. Come si evince dal titolo queste prime 8 puntate hanno come protagonista un grande ritorno in casa Marvel, ossia il Ghost Rider, personaggio dei fumetti che fece la sua prima apparizione nel lontano 1972. Quello che si ha davanti agli occhi, però, non è il centauro che tutti (o quasi) conosceranno, non è Johnny Blaze, ma è Robbie Reyes, ultima incarnazione del Rider, apparsa per la prima volta sui fumetti nel recente 2014. La più grande differenza, quella che balza subito agli occhi, è il mezzo di locomozione: questa volta le ruote non più 2 come per i suoi predecessori, ma 4, e per la precisione quelle di una Dodge Charger del 1969. La narrazione di AoS riprende le fila ovviamente dalla precedente stagione, dopo gli Accordi di Sokovia attuati in Captain America: Civil War, e vede Daisy, alias Quake, ormai fuggitiva dal di nuovo legittimato SHIELD e dai nostri protagonisti, un nuovo direttore dell'agenzia al comando, la presenza degli Inumani ormai di pubblico dominio e il Dottor. Radcliffe alle prese con il progetto segreto AIDA (un Life Model Decoy...ossia un androide!). Qualcosa però, grazie alla “caccia” a Daisy sposterà l'attenzione della squadra anche su altro, qualcosa di misterioso e mistico che a sua volta ha attirato indirettamente anche l'attenzione di un nuovo assassino in quel di Los Angeles, ovvero il fantomatico Ghost Rider: umano, Inumano...o chissà cosa? Questo primo spezzone di stagione, in cui l'azione si sposta interamente sulla costa ovest Americana, fa capire subito, sin dai primi istanti, che non c'è tempo da perdere; le basi per tutte le storyline vengono gettate grossomodo sin dalla prima puntata, lavoro rischioso ma che riesce ad essere non confusionario attraverso dialoghi mai troppo prolungati e mai banali, con beneficio per l'azione. Ai gia numerosi personaggi ne vengono aggiunti altri di non minore rilevanza come il nuovo Direttore Mace, i già citati AIDA (Mallory Jansen) e Robbie Reyes (Gabriel Luna), il fratello Gabe (Lorenzo James Henrie) e lo zio Eli Morrow (Josè Zuniga); nonostante l'affollamento, tutti i protagonisti riescono a ritagliarsi il proprio spazio, riuscendo ad essere tutti a loro modo, chi più, chi meno, influenti ai fini della storia senza risultare presenze messe (o rimaste) lì a caso nella narrazione. L'alchimia tra gli attori veterani della serie era cosa già nota, ed i nuovi ingressi risultano ben intonati in questa assodata coralità. Tra le cose che hanno sempre reso Agents of SHIELD piacevole ed accattivante (oltre ai frequenti riferimenti all'MCU e alla “mitologia” Marvel che fanno leccare i baffi alle schiere di fan/nerd) c'è quel costante clima di doppio giochismo, la sensazione che qualcuno stia tradendo o abbia qualcosa da nascondere a qualcun'altro. Tale sensazione aleggia spesso nelle puntate, d'altronde dopo lo smascheramento dell'HYDRA all'interno dell'Agenzia e le questioni riguardanti gli Inumani, nessun nuovo ingresso è visto di buon occhio, e anche il nuovo Direttore non è escluso. Proprio quest'ultimo rappresenta una piacevole new entry nella serie: volutamente poco approfondito ed enigmatico, Jeffrey Mace (Jason O'Mara) è il personaggio dalle mille sfaccettature, colui che riesce a sorprendere in positivo ed in negativo nei momenti più inaspettati. Il nuovo Direttore è un elemento dal quale tutti aspettano di sapere ancora molto altro col passare delle puntate, ed il suo rapporto ben inscenato di amore/odio col sempreverde Phil Coulson è lo specchio di ciò che pensano gli spettatori. In concomitanza con l'uscita di Doctor Strange (forse un caso), ma soprattutto vista la presenza di Ghost Rider, in questo primo step della stagione si rivedono elementi apparentemente mistici e magici; in realtà questi furono solamente accennati nel passato della serie grazie a centellinati riferimenti al mondo Asgardiano di Thor... che poi “magico” a tutti gli effetti in realtà non è. Nelle primissime puntate si rimane spiazzati di fronte a determinate situazioni, ma lo show grazie soprattutto a due personaggi come Fitz/Simmons che per deformazione professionale “non possono” credere alla magia, riesce a fornire le dovute spiegazioni; certo, ci sarebbe qualcosa da ridire su come vengono esposte queste, infatti molte volte la rapidità con la quale vengono enunciati determinati tecnicismi scientifici non permette allo spettatore di capire con esattezza come/quando/perchè si sia arrivati ad una certa soluzione, costringendolo o a dare estrema fiducia alle parole dei nostri scienziati... o a premere rewind per riascoltare al rallenty la converazione. Detto ciò: “quindi di sovrannaturale non c'è nulla?” ...non esattamente! Un capitolo a parte merita il protagonista da cui prende il nome la parte1 di questa season 4; i maligni affermano che il personaggio di Ghost Rider sia stato inserito (e tenuto “nascosto” fino a poco tempo prima della messa in onda) per far tornare su gli ascolti della serie: la verità probabilmente è che Agents of SHIELD, con i suoi continui rimandi ed interazioni con i film dell'MCU si sia presa il rischio di voler far appassionare più gente possibile a seguire tutti gli show Marvel, finendo per “accontantare” solo i fan più accaniti e “regolari”. Dunque, perchè Ghost Rider? Perchè dopo i fallimenti sul grande schermo della Columbia (accompagnati da Mr. Parrucchino Nicholas Cage) la Marvel ha giustamente provato a rilanciare il suo anti-eroe...e si, se gli ascolti si alzano, tanto meglio! Così gli Studios sono riusciti nel compito di ridare lustro e fascino ad un Ghost Rider inedito, ed è Gabriel Luna ad interpretarlo sia in abiti civili sia in motion capture. Non era semplice introdurre il personaggio, sia in termini di sceneggiatura sia soprattutto in termini di messa in scena, ma il risultato riesce ad essere molto buono per il primo caso e soddisfacente per il secondo; la storyline del Rider è abilmente inserita nelle dinamiche dello SHIELD e col passare delle puntate viene pian piano alla luce il suo background (molto simile alla controparte cartacea), che permette di dare un certo spessore e di empatizzare col personaggio di Robbie Reyes senza ridurlo semplicemente al suo alter-ego col teschio infuocato. Interessanti e divertenti sono le reazioni del resto dei personaggi alla vista del Rider (d'altronde erano abituati ad Inumani e Asgardiani... ma non a questo) così come il rapporto con Robbie Reyes alla luce di ciò in cui può trasformarsi, e che loro non sono in grado di comprendere; a tal proposito, come da schema Marvel non mancano battute e momenti “leggeri”, che riescono tuttavia comunque ad essere meno invadenti rispetto ad altre grandi produzioni Marvel. Per quanto riguarda la messa in scena di Ghost Rider, non di certo semplice, c'è da dire che in generale Agents of SHIELD è sempre riuscita ad avere uno standard abbastanza alto in termini di effettistica (proporzionato ad un budget da serieTV, ovviamente) e anche in questo caso riesce a fare un buonissimo lavoro con il teschio-e non solo-infuocato impersonato da Gabriel Luna. Naturalmente il risultato visivo non può essere paragonabile a quello dei film precedentemente citati (almeno gli effetti speciali li impiegarono bene...!) , ma complessivamente questo Ghost Rider ha ben poco da invidiare al suo predecessore. -Nota di merito per la sua entrata in scena nella puntata di apertura: solamente intravisto dopo i primi 3-4 minuti – nominato tra lo scetticismo di tutti per quasi l'intera puntata – uscito allo scoperto con tutto il suo “ardore” negli ultimissimi minuti. Ottima scelta! Come già detto la stagione 4 di Agents of SHIELD non finisce certo qui, e il finale di questa prima parte lascia intendere che le minacce non sono affatto finite qui; se all'interno dell'agenzia pare che sia stato in gran parte ripristinato l'ordine, il pericolo potrebbe arrivare da qualcosa di inaspettato (o forse no?)... Appuntamento a gennaio con la seconda parte: LMD. |
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Gennaio 2019
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