Era il 2013 quando, tra un Transformers ed un altro, e un anno prima che Godzilla (2014) rilanciasse il Monster Universe, approdava nelle sale Pacific Rim. Quello che aveva tutte le carte in regola per essere l'ennesima baracconata “robottoni vs mostri giganti” invece, nel suo piccolo riuscì a sorprendere, merito soprattutto di un certo Guillermo Del Toro (non a caso fresco di oscar per The Shape of Water) che donò autorialità ad un soggetto del genere, riuscendo a dare un certo spessore alla lotta tra jaeger e kaiju. Sono passati 5 anni ed un qualsiasi buon successo commerciale ha diritto al suo sequel: Pacific Rim: La Rivolta riprende la storia ben 10 anni dopo gli avvenimenti del primo e troviamo un mondo cambiato, che si è ormai rimesso in moto dopo i disastrosi eventi passati, ma che continua ad addestrare giovani reclute in preparazione di un eventuale ritorno dei nemici numeri uno. Ritroviamo parte del vecchio cast come Rinko Kikuchi (Mako), Charlie Day e Burn Gorman unito ad importanti new entry, come John Boyega (il Finn dei nuovi Star Wars) e Scott Eastwood. Protagonista di questa nuova storia è proprio la star del momento John Boyega nei panni di Jake, il figlio di Stacker Pentecost (Idris Elba), uno dei più celebri eroi della vittoria di 10 anni prima; ma Jake non è come suo padre (e questo ci tiene bene a precisarlo) e vive da ex soldato debosciato e disilluso. Per fortuna ci pensa la sorellastra Mako a riportarlo sulla retta via insieme alla giovanissima Amara (Cailee Spaeny) proprio quando una nuova e diversa minaccia sta mettendo in pericolo la Terra. Inutile girarci attorno, l'assenza di Del Toro si sente, ma non è di certo il divario che caratterizzò (tanto per citare un esempio) i Batman di Tim Burton da quelli di Joel Schumacher: la differenza c'è , ma l'impegno del buon Steven DeKnight alla regia (showrunner della prima stagione di Daredevil) di certo non fa gettare tutto alle ortiche. Col l'assenza di un concreto nemico, quelle che si creano sono fazioni e rivalità tra gli uomini, tra compagnie, tra nuove e vecchie reclute, il più semplice ed efficace dei metodi per fare la conoscenza di tutti i personaggi, a dir la verità nessuno dei quali particolarmente caratterizzati (compresi quelli primari); personaggi vuoti, piatti? No, semplicemente trattati con relativa leggerezza. La trama di questo secondo capitolo è invece una parziale sorpresa: nulla di trascendentale, sia ben chiaro, ma Pacific Rim: La Rivolta, nonostante alcune scelte narrative (addirittura morti) pilotate ed alquanto prevedibili, e dovuti approfondimenti psicologici solamente accennati rispetto al suo predecessore, riesce a regalare qualche buono spunto e sorprendere lo spettatore. La sensazione che si ha dopo l'intera prima parte è quella di non sapere in che direzione stia andando la pellicola, salvo poi diventare tutto più chiaro con un inaspettato colpo di scena, ma la notizia è un'altra: nella citata prima parte la presenza dei kaiju è ridotta all'osso, a testimonianza del fatto che non si sia voluto puntare tutto soltanto su mirabolanti botte da orbi. L'azione c'è, ma è la narrazione nel complesso a risultare semplice ma ben scritta e fruibile per tutta la sua durata, senza rilevanti punti morti (Michael Bay, fai un ripasso...). A farne le spese è però il simpatico duo formato dal Dottor Geiszler e dal Dottor Gottlieb, ripensandoci, probabilmente uno dei piccoli punti di forza del primo capitolo: sempre rilevante la loro presenza ai fini della storia, ma non presenti come ci si sarebbe aspettato. Ma la differenza più grande con la pellicola di 5 anni fa risiede nell'estetica, e nello specifico in una fotografia che ha abbandonato i tipici tratti dark di Del Toro, per far spazio ad una più luminosa e sgargiante: questo cambio repentino di stile sicuramente non ha giovato all'originalità del film, rendendo gli scontri, seppur spettacolari, chiari e magnificamente realizzati, delle copie di spezzoni dei vari Transformers. Negli jaeger di Guillermo del Toro si percepiva la fatica, la pesantezza e per certi versi la lentezza nei movimenti di questi bestioni di metallo, stesso discorso per i bestioni kaiju (come d'altronde la fisica insegna); questa volta invece più stranamente naturale, “leggero”, come d'altro canto lo è tutto il film. La distruzione che ci fu nella prima pellicola fu tanta, ma quella di questo capitolo potrebbe addirittura far invidia a Superman e Zod in Man of Steel (non a caso molti memorabili combattimenti del film del 2013 erano ambientati in mare aperto). In fondo non c'è poi molto da dire su Pacific Rim: La Rivolta; l'impegno nel non rendere questa saga una baracconata senza senso, c'è stato (Michael Bay, fai un altro ripassino...), quello tale da sfruttare al meglio le potenzialità che questo franchise aveva dimostrato di poter avere, meno. Il film di De Knight e il cast tutto, è giusto dirlo, fanno il loro lavoro: raccolgono una buona storia, la portano avanti discretamente e la incanalano verso possibili sèguiti di cui si sta gia iniziando a parlare, tutto senza particolari sforzi. Ciò che non è riuscito a questo sequel è stato quello di evitare quella sensazione di dejavù che sembrava inevitabile già nel primo capitolo, sovvertendo poi le aspettative. Pacific Rim: La Rivolta è questo: la pellicola che tutti si sarebbero aspettati 5 anni fa. Veramente difficile questa volta non provare quella sensazione di “già visto”, ma d'altronde non si può avere sempre tutto e in tempi come questi, nel suo genere, una pellicola come questa risulta un prodotto tutto sommato soddisfacente, soprattutto per le grandi masse; dopotutto, poteva andare a finire come Independence Day:Rigenerazione... pericolo scampato. [In basso il trailer finale del film, anche in HD!]
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[In collaborazione con gli amici di www.nerdevil.it !] Ci sono voluti ben 52 anni (la prima apparizione del personaggio risale al 1966) affinché il primo supereroe di colore riuscisse ad avere una sua versione cinematografica, ma finalmente questo 2018 ha portato con sé il film interamente dedicato a Pantera Nera (o meglio T’Challa, Re e protettore del Wakanda), il 18° cinecomic targato Marvel Studios. A dire il vero la sua storia ha avuto inizio in Captain America: Civil War, dove abbiamo visto per la prima volta -in abiti civili e non- l’allora principe insieme al padre, caduto sotto le esplosioni di un attentato a Vienna. Ora però è tempo di tornare a casa, nella madre Africa, dove l’erede al trono si appresta ad essere incoronato come nuovo sovrano. Dopo Luke Cage, il black power di casa Marvel passa dal piccolo al grande schermo, ma le differenze tra i due non potrebbero essere più grandi: non ci troviamo a New York, ad Harlem, non c’è nessuna rivalsa sociale, e non c’è il ghetto, ma un intero popolo. Black Panther catapulta lo spettatore in un nuovo mondo, un regno nascosto, un’ambientazione del tutto inedita che già di per se rappresenta una sfiziosa novità nel Marvel Cinematic Universe; un luogo terrestre e non cosmico, dove antiche tradizioni e modernità si fondono e convivono all’unisono creando un connubio tanto insolito quanto affascinante. Tutto perfettamente accompagnato da musiche anch’esse figlie del nuovo e vecchio black style con paesaggi mozzafiato a completare il quadro. È quasi paradossale di questi tempi (specie in Italia) assistere ad una storia dove sia l’etnia di colore a voler rimanere separata dall’Occidente, ma d’altronde se c’è il vibranio di mezzo…. Difficile non affezionarsi subito alla stragrande maggioranza dei comprimari della pellicola, tra cui spiccano la giovane sorella del protagonista Shuri (cervellona a livelli che “Tony Stark levati”), la guerriera Okoie (la Michonne di The Walking Dead), la ex di turno Nakia (interpretata dal Premio Oscar Lupita Nyong’o), fino ad arrivare al personaggio interpretato da Michael B. Jordan, Killmonger, il villain della storia. Non sempre un gran bel cast (al quale vanno aggiunti altri nome del calibro di Forest Whitaker, Martin Freeman, Daniel Kaluuya e Angela Bassett) è sinonimo di successo, ma uno dei valori di Black Panther è senz’altro quello di aver saputo valorizzare ognuno dei suoi interpreti tanto quanto basta per farceli rimanere impressi nella memoria. Per il resto si può tranquillamente affermare che il film diretto da Ryan Coogler (già regista dell’ottimo Creed) segua una sceneggiatura semplice, senza particolari fronzoli e con i giusti colpi di scena, che narra la storia di una grande famiglia, dove le colpe dei padri potrebbero ricadere sui figli, un dramma familiare che sembra ricordare addirittura Il Re Leone. Questa volta però non c’è un invidioso e viscido Zio Scar, ma un Killmonger col quale non è poi tanto difficile empatizzare, e comprendere quindi cosa lo spinge ad agire in un certo modo (certamente discutibile). Michael B. Jordan prosegue l’ultima felice tendenza in casa Marvel di valorizzare anche i propri cattivi (uno su tutti l’Avvoltoio di Michael Keaton), regalando una performance senza sbavature, che sbatte in faccia allo spettatore tutto il rancore e la rabbia del suo personaggio. Dopo il disastroso Fantastic Four del 2015 (dove ha interpretato la Torcia Umana), l’attore si è preso una gran bella rivincita nell’ambito dei cinecomic, riuscendo in più di qualche frangente a rubare la scena al protagonista Chadwick Boseman, che paradossalmente risulta più accattivante nella sua prima apparizione che non nel qui (forse la sua ottima interpretazione nel 2016 ha portato troppo in alto le aspettative). Nota di merito anche per Martin Freeman, che nei panni dell’agente CIA Everett Ross ricopre a sorpresa un ruolo piuttosto importante. È ormai impossibile che le vicende di questo immenso universo cinematografico non si interconnettano l’una all’altra, ma il film, nonostante i dovuti collegamenti con gli altri capitoli, è uno di quelli che maggiormente potrebbe vivere di vita propria. Black Panther è senz’altro uno dei film più maturi del MCU, in cui non c’è spazio per la comicità ai limiti del demenziale vista in Thor: Ragnarok, ma al massimo momenti più “leggeri”, che non spezzano affatto la profondità della storia; si sorride ma non si ride, e va senz’altro bene così. Bello, spontaneo e divertente il rapporto fratello-sorella tra T’Challa e la principessina Shuri. Ovviamente non manca l’azione, con sequenze adrenaliniche e sempre spettacolari che raggiungono il culmine con la grande battaglia finale (e mi fermo qui per non svelare troppo). Nella pellicola l’azione non è preponderante, ma non passa affatto inosservata. Il regista ha saputo ben dosare l’equilibrio tra l’azione e sequenze più lente, dialogate e riflessive (da non intendere assolutamente come “noiose”). Macroscopicamente questo primo film Marvel del 2018 non presenta particolari difetti: certo, la CGI di Black Panther restituisce un po’ un “effetto videogame” non eccezionale, simile a quello dello Spider-Man di Tom Holland, ma il costume tecnologicamente anti-tutto del Re Wakandiano è magnifico e quindi questo particolare tende a passare in secondo piano. Black Panther è un film canonico, semplice ma non banale, che nella sua “normalità” ha il merito perlomeno di fornire un’ambientazione inedita, visivamente d’impatto, oltre a personaggi ben scritti. Non è di certo il capolavoro che ci hanno descritto oltreoceano, ma d’altronde le opinioni su ogni nuovo cinecomic sembrano non avere mezze misure, e ogni volta si sente parlare solo di “capolavoro” o “cagata pazzesca” (abbiamo anche pubblicato un articolo sull’argomento). Una cosa però è sicura: la Marvel ancora una volta ha fatto centro, senza troppi sforzi e facendo quello che le riesce meglio. Black Panther è un film meravigliosamente modesto, una pellicola che non entusiasma a livelli incredibili, ma certamente permette di lasciare la sala soddisfatti. E ottiene questo risultato di per sé, senza doversi poggiare molto sulle 2 scene post-credits, anch’esse piuttosto “normali”, ma attorno alle quali ruota giustamente molta curiosità, visto l’arrivo imminente dell’attesissimo Avengers: Infinity War che vedrà entrare in azione il titano pazzo Thanos. [In basso il trailer del film anche in HD!] [In collaborazione con gli amici di www.nerdevil.it !] C’è chi guarda il Super Bowl perché ama il football, chi perché ama la musica e aspetta le esibizioni live dei numerosi artisti che ogni anno ospita l’evento, e chi, come chi starà leggendo questa recensione, molto probabilmente se ne frega dei primi due e lo aspetta solo per poter vedere i nuovi trailer dei film più attesi. Quest’anno però si è andato oltre per quest’ultima categoria, e il Super Bowl ha regalato (indirettamente) addirittura un film intero! Ebbene sì, perché Netflix non si è limitata a presentare il primo trailer di The Cloverfield Paradox, ma ha deciso di distribuirlo sulla sua piattaforma a partire dal termine del grande evento sportivo. Dunque, dopo anni di travagliata gestazione e di notizie vaghe e contrastanti trapelate col contagocce, ecco che da un giorno all’altro Netflix ci sbatte in faccia questo nuovo capitolo di una delle saghe più anomale del cinema. Era il lontano 2008 quando spuntò fuori quasi dal nulla (è un simpatico vizio della saga) Cloverfield, atipico monster movie girato in stile mockumentary, che si rivelò un buonissimo successo di pubblico e incassi, reso ancor più chiacchierato dalla insolita e criptica campagna di marketing virale che lo accompagnò e dai numerosi easter-egg presenti in esso. Sin da subito si parlò di un sequel, ma dovettero aspettare altri 8 anni prima che nel 2016 venisse distribuito 10 Cloverfield Lane, che alla fine della fiera si rivelò un seguito “spirituale” del predecessore (con parziale delusione di chi, come il sottoscritto, si aspettava un proseguimento della storia), ma comunque una pellicola di buona fattura, con un John Goodman in splendida forma. Dopo questa breve rinfrescata torniamo ad oggi, dove Netflix ci presenta questo nuovo capitolo come sequel diretto del film di 10 anni fa: ma sarà davvero così? La risposta più azzeccata è un deciso “NI”, visto che basta dare un’occhiata al materiale pubblicitario per constatare che la storia è ambientata addirittura nel 2028 (ma c’è sempre di mezzo la famigerata Tagruato). Le vicende si svolgono nella stazione orbitante Cloverfield, dove l’equipaggio sta cercando di mettere in funzione un acceleratore di particelle grazie al quale poter fornire energia illimitata ad una Terra sull’orlo di una crisi mondiale. Abbiamo un equipaggio, una missione, un acceleratore di particelle e… un guasto: gli elementi ci sono tutti e non è difficile immaginare che la situazione potrebbe prendere una piega infelice. Protagonisti della storia sono 8 astronauti tra cui spiccano lo Schmidt di Daniel Bruhl e la Jensen interpretata da Elizabeth Debicki, di cui non sappiamo nulla e che tutto sommato non ci interessa approfondire ai fini della storia. L’eccezione è rappresentata da Hamilton (Gugu Mbatha-Raw) che attraverso la sua storyline col marito Michael, permette lo sviluppo della sottotrama secondaria ambientata sulla Terra, che pare voglia ricollegarsi agli avvenimenti del film del 2008. Esiste un filo conduttore netto che collega i capitoli di questa saga: l’ignoto. L’ignoto è non sapere cosa stia succedendo in città e da cosa si stia scappando, l’ignoto è non sapere perché si sia stati rinchiusi in un bunker anti-atomico e cosa ci sia al di fuori di esso, l’ignoto è non sapere cosa possa aver provocato il malfunzionamento di uno degli strumenti più sofisticati prodotti dalla scienza come un acceleratore di particelle. Il film è un alternarsi di dubbi, misteri, situazioni inspiegabili che, data l’ambientazione vista e stravista, permettono di non scivolare troppo nei vari clichè di turno (come accaduto miseramente ad esempio in Life – Non oltrepassare il limite). La curiosità di avere risposte e le tematiche in stile Fringe (che vorrebbero anche strizzare l’occhio ad Interstellar) contribuiscono a mantenere costantemente un ritmo ben sostenuto per i suoi 100 minuti, accompagnate inoltre da un regia senza sbavature del giovane esordiente Julius Onah, che offre discreti momenti di tensione. The Cloverfield Paradox è questo: un detto ma non detto, un fumo abbondante con un arrosto discreto, un film che soddisfa ma non del tutto, che però lascia con la voglia di sapere ancor di più di quel che si è capito; un po’ come ridere a crepapelle per il modo in cui sia stata raccontata una barzelletta, rendendosi conto in un secondo momento che forse la barzelletta non era ancora terminata. J.J. Abrams non sarà accreditato tra gli sceneggiatori, ma la sua mano da gran parac**o è tangibile in questo come negli altri capitoli. Dal monster movie Cloverfield, al thriller drammatico 10 Cloverfield Lane si è arrivati a questo thriller fantascientifico a tinte horror che probabilmente dividerà il pubblico, ma per chi conosce la saga e le sue evidenti ambizioni di “nicchia”, The Cloverfield Paradox rappresenterà un discreto film di fantascienza che fa il suo lavoro, tentando di regalare qualcosa di accattivante avvalendosi anche di qualche guizzo ben riuscito. Viene da chiedersi: vedremo mai un sequel? Sarà un sequel diretto? La risposta alla prima domanda è sicuramente sì: stando alle parole proprio di J.J. Abrams, infatti, il quarto capitolo sarebbe già stato girato e avrebbe anche un titolo (Overlord), ma dalle pochissime informazioni giunte sappiamo che sarà ambientato addirittura durante la Seconda Guerra Mondiale. Dunque, addio seguito diretto. Magari dovremo aspettare altri 10 anni, o magari ci renderemo conto che Netflix lo ha già inserito nella sua piattaforma senza dirci nulla. Visti gli ultimi sviluppi, nulla è escluso! (In basso il trailer del film, anche in HD!) “Non ho iniziato io questa guerra… ma la finirò.” Ebbene sì, per quanto il leader delle scimmie Cesare si sia sforzato di scongiurare un conflitto, il corso degli eventi ha portato ad un epilogo che era ormai diventato inevitabile. Sono passati 2 anni dagli avvenimenti di Dawn of the Planet of the Apes e 15 dalla diffusione di quello che è ormai conosciuto come il “virus delle scimmie”; gli schieramenti erano già pronti, ma ciò che non era noto era quale sarebbe stato il casus belli per questo scontro totale. Matt Reeves torna di nuovo dietro la macchina da presa e riprende in mano la storia di questo nuovo mondo post-apocalittico (dopo il primo capitolo diretto da Rupert Wyatt) presentando una pellicola bellica a 360°; il regista mostra come la guerra non sia fatta solo di esplosioni e bombardamenti (chissà come avrebbe diretto Michael Bay una pellicola del genere…), ma di faide interne, contraddizioni e conflitti psicologici. Fin dalle prime battute risulta difficilissimo non stare dalla parte delle scimmie, quando la fazione opposta è rappresentata dal lato umano più basso, vile e guerrafondaio, ma sono veramente tutti corretti i comportamenti del loro capo? Koba è morto, ma la sua presenza aleggia costantemente durante la pellicola come un fantasma del passato, ponendo Cesare di fronte ad incubi, tormenti ed un terribile dilemma: “…e se stessi diventando proprio come lui?” Il leader delle scimmie, interpretato ancora una volta magistralmente da Andy Serkis, affronterà un lungo viaggio animato dalla vendetta per (ri)scoprire se stesso, tra lande ghiacciate e zone di guerra, ma fortunatamente non sarà da solo. I fedelissimi Maurice, Rocket e Luca infatti non lo abbandoneranno, e i quattro faranno inoltre la conoscenza di due interessanti personaggi: il simpatico “scimmia cattiva” – un loro simile che durante la vita in gabbia è stato sempre apostrofato così – e una piccola umana incapace di parlare trovata in un villaggio abbandonato, rinominata da loro Nova (probabilmente per i fan della vecchia pentalogia questo terzo capitolo risulterà quello con più riferimenti e “tributi” alle pellicole del passato). Dall’altra parte della barricata vi è invece “Il Colonnello” Woody Harrelson, cattivo annunciato che già dai primi trailer strizzava l’occhio al Marlon Brando di Apocalypse Now; spietato, dispotico, con idee e convinzioni solo superficialmente motivate che non perdono tempo prima di degenerare in pura follia. Il Colonnello McCullough non lascia scelta allo spettatore: impossibile stare dalla sua parte ed empatizzare con lui, a conferma dell’intenzione del franchise di identificare il genere umano, fatte rarissime eccezioni, come unica causa dei propri mali. Ciò che rappresenta (senza andare troppo nello specifico per evitare spoiler) è l’efferatezza che ha sempre contraddistinto l’uomo in tutti i conflitti della sua storia, con crudi rimandi alle grandi guerre del secolo passato: insomma, è la Storia che inesorabilmente e tristemente si ripete. In War for the Planet of the Apes (odio totalmente le traduzioni italiane adottate per questa trilogia!) nulla è lasciato al caso, a partire dai nuovi personaggi introdotti: Colonnello, scimmia cattiva e Nova; ognuno di loro viene sufficientemente approfondito, ognuno avrà un suo preciso scopo ai fini della storia e qualcuno sarà anche in grado di farci sorridere, ma senza stravolgere l’equilibrio di una pellicola di chiara impronta seria e riflessiva. La costruzione di molti rapporti fa di necessità virtù la vera e propria incapacità di dialogare di molti interpreti, soffermandosi su primi piani, mimiche e gesti che rendono le parole superflue. Ne è un perfetto esempio il legame tra l’orangotango Maurice (presente sin dal primo capitolo) e la piccola Nova, talmente chiaro e sincero da risultare efficace anche senza dialoghi. Altre gradite sorprese arrivano dal lato tecnico, con un fotografia grigia in perfetta sintonia col tono della pellicola e con location umide e innevate, ma soprattutto una colonna sonora che alterna il “nuovo” a musiche che hanno come palese ispirazione le pellicole della saga originale; come già detto, è forte in quest’ultimo capitolo l’influenza delle pellicole analoghe degli anni ’60 e ’70. L’ultimo (?) atto di questa coinvolgente trilogia non è perfetto, ma ci si avvicina; è giusto evidenziare la “fortunata” sincronizzazione di alcuni eventi chiave nella sceneggiatura, ma è bene passarci sopra a fronte di altrettante intelligenti trovate, ma soprattutto al cospetto di una Regia (con la R maiuscola) in grado di gestire ottimamente un dramma bellico di 142 minuti carico di tensione, emozionante e struggente. War for the Planet of the Apes è la degna conclusione di una trilogia già molto apprezzata oggi, che certamente continuerà ad essere amata dalle prossime generazioni; senza dubbio e senza azzardo uno dei migliori e più maturi blockbuster della stagione, oltre a rappresentare la consacrazione come “motion capture-man” (semmai ce ne fosse ancora bisogno) e non solo, di Andy Serkis. Il suo Cesare ci ha intenerito, esaltato, commosso, entusiasmato, risultando uno dei personaggi più coinvolgenti e memorabili degli ultimi anni… impossibile fare di meglio. Allora diciamolo senza timore: DATE UN OSCAR A QUESTA SCIMMIA! (In basso, il trailer in HD della pellicola!) Disponibile sulla piattaforma Netflix a partire da gennaio 2016, Paradox è l'ennesimo film (non che personalmente mi dispiaccia) incentrato sui viaggi nel tempo e sui paradossi temporali, dato incomprensibile, a causa l'enigmatico e fuorviante titolo! (dai, un minimo di fantasia almeno per quello...) Nonostante una recitazione piuttosto mediocre da parte dei protagonisti ed effetti speciali (pochi, per fortuna) quantomeno discutibili, Paradox si rivela un b-movie di discreta fattura che riesce bene a destreggiarsi tra le possibili difficoltà che potrebbero derivare dall'affrontare questioni temporali; la pellicola, attraverso una trama divenuta ormai negli anni non proprio originalissima, riesce a portare avanti una narrazione piuttosto lineare e fluente, senza richiedere troppi sforzi cervellotici (vedi ad esempio Synchronicity). Alcune dinamiche della storia potrebbero ricordare Timecrimes (rispetto a Paradox, un vero e proprio piccolo gioiellino del genere), ma la trama si sviluppa fortunatamente in maniera non speculare e riesce anch'essa a regalare più di qualche inaspettata sorpresa. Paradox non sarà ne rivoluzionario, né un gran film (non che qualcuno se l'aspettasse), ma risulta comunque un discreto prodotto che non dispiacerà affatto agli appassionati del cinema di fantascienza...senza elevate pretese. (in basso il trailer in lingua originale del film, anche in HD!) |
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Gennaio 2019
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