Avete finalmente visto IT? Il giorno che sembrava non dovesse arrivare mai è arrivato, la barchetta di Georgie è finalmente caduta nel tombino... e ci siamo precipitati al cinema. Dunque COM E' IL FILM? Domanda ovvia, risposta semplicissima: Bello. IT è un film horror curato e ben girato che fortunatamente non si rivela il “solito horror”... insomma, semplicemente molto bello. L'impressione è che effettivamente sia stato girato con passione e con cuore, e i pareri di persone soddisfatte che hanno letto il libro (io purtroppo non l'ho fatto) confermano di come sia rimasto intatta e tangibile l'anima del romanzo di Stephen King. Avrete già letto di tutto e di più sulla pellicola del buon Muschietti, quindi mi limiterò a poche e mirate considerazioni. I protagonisti sono tutti sorprendentemente bravi e credibili, con le loro pulsioni adolescenziali e le loro battute a sfondo sessuale (per gran parte ad opera ovviamente di Richie-Finn Wolfhard); questi ragazzi in preda agli ormoni sviluppano una chimica che più di ogni altra cosa rappresenta lo spirito del film. Come dice la scimmia Cesare: “scimmie, unite, forti!” e anche i 7 perdenti, uniti, sono addirittura in grado di non temere una creatura che è a tutti gli effetti male puro. Magari sarebbe stato bello sapere qualcosa in più su qualcuno (e non lasciare il povero Mike da solo per mezzo film), ma ciò che sappiamo di ognuno di loro risulta nel complesso sufficiente...d'altronde la pellicola dura già 135 minuti. Il regista riesce perfettamente a portare allo spettatore la visione dei ragazzini, in una Derry dove nessun adulto risulta mai minimamente una figura positiva (ma proprio NESSUNO!), insomma la tipica visione che tutti avremo avuto durante la nostra infanzia in cui “Gli adulti non ci capiscono! Gli adulti non sanno nulla!”. Proprio per questo IT riesce ad essere sia un film per i giovani, sia un film per tornare giovani e nostalgici, e non era facile realizzarlo. Per il resto, il ritmo della pellicola è senz'altro gradevole e rende scorrevoli le 2 ore e più del film, nonostante ci siano dei frangenti piuttosto rilassati, ma funzionali e resi ugualmente piacevoli grazie alle interazioni e ai dialoghi mai banali tra i piccoli protagonisti. “Fa PAURA?” SI, il film spaventa e impressiona grazie anche ai tanto temuti “jump scare”, che se usati unicamente come pretesto per terrorizzare, avrebbero banalizzato l'intero girato; invece ci sono, ma sono ben utilizzati, ci sono ma non sono l'unico espediente per sapaventare. Insomma, nulla è sbagliato se ben dosato e ben diretto. Pennywise fa effettivamente paura (nonostante i pericoli non arrivino soltanto da lui) e NO, non è paragonabile con quello dell'ottimo Tim Curry, non perchè uno sia tanto migliore dell'altro, ma semplicemente perchè non c'è nessun paragone da fare. Nessuno sano di mente farebbe mai un paragone sul Joker di Jack Nicholson e su quello di Heath Ledger, perchè sono due caratteri completamente diversi, due visioni completamente diverse dello stesso personaggio tanto quanto lo sono Curry e Bill Skarsgaard. Questo nuovo Pennywise spaventa a prima vista, non vuole attirare per poi uccidere: vuole terrorizzare, terrorizzare per nutrirsi proprio di quella paura! Questo pagliaccio non lascia spazio ad indugi e non si dilunga più di tanto nei dialoghi; come già detto è male puro, come è pura e lampante la voglia che ha di trucidare il Club dei Perdenti. MA nonostante tutto, riesce anche ad essere grottesco e a tratti quasi comico. Se nella miniserie del '90 (e questo è un paragone da fare) sembrava quasi che Pennywise se ne andasse via dopo averli terrorizzati senza mai affondare il colpo, questa volta non è così; il clown da l'impressione di poter effettivamente ammazzarli uno ad uno in ogni scena dove è protagonista, se non fosse “interrotto” da altre cause. Per essere chiari, “ci va tanto vicino così” più di una volta. Il lavoro del più piccolo degli Skarsgaard è senza dubbio notevole e ispirato: nelle espressioni, nei ghigni, nelle urla e nella mimica facciale, l'attore risulta già piuttosto ferrato (chissà se è merito anche di quel suo leggero strabismo). Di più, ad un ragazzo di 27 anni non gli si poteva chiedere e della sua interpretazione non potranno non essere tutti piacevolmente sorpresi. Nostalgici di Tim Curry e non. Ovviamente senza fare spoiler è bene spendere 2 parole sul finale: coinvolgente, avvincente, romantico. Le parole sono 3 e forse esagerate, ma lo scontro tra i protagonisti ed il clown riesce ad essere spettacolare ed entusiasmante senza sfociare nell' “americanata”. Ultime note di merito per le guanciotte da strizzare di Jeremy Ray (Ben) e per la scelta di Sophia Lillis (Beverly), sensuale ed innocente allo stesso tempo e perfettamente amalgamata con il resto dei maschietti (ma solo io credo che sia il perfetto mix tra Scarlet Johansson e Amy Adams?) IT è dunque un “capolavoro” come qualcuno ha affermato? Assolutamente no, infatti anche questa non è una pellicola esente da piccoli difetti...ma per parlare di questo potete rivolgervi ai bacchettoni del mestiere. Quello che più conta è la domanda nel titolo: le attese sono state rispettate? Diamine, SI! Quindi andate al cinema a vedere IT! Se siete amanti dell'horror, se non lo siete, se avete letto il libro o se non l'avete fatto, se avete visto la miniserie del 90' o se non sapete minimamente chi sia Pennywise... perchè la pellicola diretta da Muschietti è decisamente un gran bel film. (In basso il trailer della pellicola, anche in HD!)
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Alla fine Iron Fist lo vedrete. Ve lo vedrete a prescindere da ciò che avrete letto qui e lì su internet, ve lo vedrete perché questa cosa dei Defenders vi intriga e non potete arrivare impreparati all’appuntamento, oramai imminente. Ve lo vedrete perché c’è stato un momento, un momento che collocherei tra la prima e la seconda stagione di Daredevil, in cui l’intreccio targato Marvel ha veramente alzato oltremisura l’asticella delle aspettative, facendoci pensare di essere dinanzi ad un capolavoro in divenire. Iron Fist, però, non è una grande serie, inutile girarci troppo intorno. Premessa: non sono un fedelissimo Marvel. Sono uno di quelli che sì, si vedono qualcosa ogni tanto, sì, è fatto bene, sì, ok, ma non è che vado a leggermi i fumetti e a rispettare con rigore l’ordine cronologico dei vari X-Men o Avengers di turno. Questa premessa è necessaria perché i fan “a prescindere” ridimensioneranno ogni critica che mi appresto a fare, un po’ per amore cieco, un po’ perché tanto ogni incongruenza o lacuna di un prodotto Marvel la andranno a colmare e a giustificare con “eh, nel fumetto ti fa vedere che…” Il punto di forza del quartetto di serie Marvel che ci viene proposto da Netflix dovrebbe essere proprio questo: offrire un prodotto complesso, sfaccettato ma coerente ed auto-esplicante. Se le cose vengono fatte per bene io, spettatore-medio, capisco ed apprezzo ogni cosa senza dover andare a sfogliare l’immensa enciclopedia Marvel per ottenere chiarezza. Ma veniamo alla storia che ci viene proposta. Iron Fist racconta la vicenda di Danny Rand (Finn Jones), piccolo rampollo di una famiglia multimilionaria che possiede una multinazionale dalle risorse illimitate (chiamata, come è ovvio, “Rand”), gestendo la stessa in tandem con la famiglia Meachum. Tra il piccolo rampollo destinato a ricchezza senza limiti e il Danny Rand che ci viene presentato nella prima puntata della stagione (scalzo, sporco e con un sorriso abbastanza da ebete) intercorrono 15 anni di vuoto (che tale rimarrà, ahimé). Questo perché Danny, quando era ancora un bambino, è rimasto vittima di un incidente aereo avvenuto per cause ignote mentre il jet di famiglia sorvolava le montagne dell’Himalaya. Mentre i suoi genitori perdono la vita, Danny viene soccorso da due monaci tibetani, che lo conducono a K’un-Lun (…un villaggio?) e lo addestrano affinché egli possa combattere La Mano. Nel corso del suo annoso tirocinio presso i monaci guerrieri, Danny diviene l’Iron Fist (come? Perché?), una sorta di guerriero dei guerrieri, di eletto, di entità divina. Ma cosa può fare l’Iron Fist? Il suo potere, derivante dal suo “Chi” (eh?), consiste in una sorta di pugno dalla consistenza dell’acciaio e dalla forza incredibile. Va detto che, dopo aver visto il buon Luke Cage affrontare eserciti e tonnellate di piombo uscendosene giusto con qualche maglietta bucherellata, il “superpotere” dell’Iron Fist appare alquanto fiacco e poco caratterizzante, ma vabbè. Già muovo la mia prima critica: come posso appassionarmi alla storia di un personaggio, se nei suoi flashback tutto ciò che vedo è il momento in cui il jet precipita (una volta, due volte, tre, abbiamo capito, ma dopo 15 anni questo ragazzo non pensa ad altro?), o al limite qualche seduta meditativa sul pizzo di una montagna? Cos’è “K’un-Lun”? Perché La Mano vuole attaccarla? Perché l’Iron Fist ha modo di “nascere” solo in quel posto? Perché Danny è sopravvissuto? Esiste realmente il “drago” di cui ad un certo punto si parla? Che si intende quando viene detto che “il passaggio per K’un-Lun è aperto”? A tutte queste domande non riceverete alcuna risposta nel corso delle 13 puntate di questa stagione. Nessuna, zero, nada. Forse questo alone di mistero ha un qualche motivo che non mi è dato conoscere, ma quello che so è che questa prima stagione aveva proprio il compito di introdurmi il personaggio principale, mentre su quei quindici anni di addestramento non c’è alcun approfondimento, anzi, lo stesso personaggio sembra rimuovere in fretta una vita di addestramento quando alle prime provocazioni del villain di turno inizia a dare di matto e a perdere il controllo. Comunque, tornando alla trama, il problema che per primo Danny si trova ad affrontare ritornando a New York è quello di dover convincere qualcuno del fatto che lui sia davvero lui, dato che, come è chiaro, tutti lo danno per morto. Farà quindi i salti mortali per convincere i suoi “fratellastri” Ward e Joy circa la sua sincerità, trovando ostacoli soprattutto per causa di Ward, che dopo la morte di Harold Meachum (padre di Ward e Joy e socio originario del padre di Danny) è il “ragazzo d’oro” che tiene le redini della floridissima multinazionale e teme un ritorno al timone della famiglia Rand. Ward (Tom Pelphrey) è probabilmente il personaggio migliore della serie: elegante, cinico, astuto ma al contempo infantile e nevrotico, regge bene il ruolo di villain nella prima parte di stagione, per poi essere rimpiazzato da altri (ne ho contanti almeno altri 3) nel ruolo di cattivo principale. Purtroppo, andando avanti, lo stesso Ward degraderà a personaggio secondario e diventerà anch’egli un personaggio alquanto monocorde ed elementare nella caratterizzazione. Già, perché personalmente è questo quello che meno mi è piaciuto di questa serie: la caratterizzazione dei personaggi. Sono tutti, davvero senza eccezioni, monodimensionali, stereotipati, o buoni o cattivi. Abbiamo, quindi, i buoni a prescindere (Danny, Colleen, Joy, Claire) e i cattivi incorreggibili (Ward, Gao e gli altri non posso svelarveli), e le evoluzioni in questo senso saranno praticamente nulle. Danny è stato il protagonista Marvel/Netflix con cui ho empatizzato meno: piatto, sempliciotto, umorale, infantile, in tredici puntate praticamente riesce solo ad oscillare tra i due poli, uno positivo, che lo fa essere virtuoso e non gli fa mai avere il minimo dubbio (“devo sconfiggere la Mano!”), l’altro, negativo, che lo fa essere rabbioso e piuttosto stupido e prevedibile (“chi ha ucciso mamma e papà?”). Colleen Wing (Jessica Henwick), l’umile ragazza asiatica che gestisce un dojo e che per prima dà ospitalità ed aiuto a Danny, è il perfetto alterego di quest’ultimo: ingenua, pura, animata da buoni sentimenti, ci metterà però giusto il tempo di qualche minuto per rinnegare l’educazione che per anni ed anni ha ricevuto, il tutto in nome dell’amore e della prevedibilità. Joy Meachum (interpretata dalla bella Jessica Stroup), altra figura femminile di spicco, è invece divisa tra sentimentalismo e cinismo, tra fiducia e diffidenza, tra valori nobili e bieco arrivismo, ragion per cui ora appare essere la “buona” di casa Meachum, ora invece la sua esponente più emblematica. Quello che però attraversa Joy non è un dualismo ben articolato, sottile e credibile: no, semplicemente questo personaggio cambia da un momento all’altro, va ad intermittenza, si comporta all’opposto di come ti aspetteresti ogni volta che credi di averlo finalmente inquadrato. L’esempio più lampante di ciò, lo vedrete, si rinviene nell’ultima scena della serie. Quanto a Claire Temple (Rosario Dawson), il collante di tutti i Defenders, anche lei è stata travolta dalla frettolosa caratterizzazione dei personaggi in Iron Fist: i suoi connotati tipici, ricorrenti tanto in Luke Cage quanto in Daredevil e Jessica Jones, qui arrivano all’estremo, diventano qui quasi macchiettistici, esasperati e poco credibili (mi viene in mente, ad esempio, la tendenza alla battuta sagace nei momenti di massima tensione, o l’atteggiamento rassegnato di chi, tanto, le ha viste tutte). Il personaggio più emblematico della caratterizzazione rozza dei personaggi di questa serie è, in ogni caso, il grottesco Davos: proprio quando ti aspetti un guerriero solido, risoluto, intelligente e carismatico, ecco che ti ritrovi un ragazzino complessato e fondamentalmente stupido, che ripete come un pappagallo le cose che gli sono state inculcate. Ma hai 30 anni, caro mio, datti una svegliata e conosci il mondo! Dal quadro catastrofico che ho appena tratteggiato voglio però escludere Jeri Hogarth (la Carrie-Anne Moss di matrixiana memoria), che riesce ad essere sé stessa anche qui, anche se stona il fatto che un personaggio così cinico e materialista sia il primo a dar credito a Danny Rand circa la sua identità (mentre Joy ha dovuto aspettare un pacchetto di M&M’s per riconoscere l’amichetto con cui è cresciuta). Elencati i difetti, occorre però anche capire cosa spinge a chiudere un occhio e ad andare avanti nella visione di questa serie: la mia risposta è “La Mano”, cioè quest’entità malefica che già ci ha tenuti incollati allo schermo in Daredevil e che ogni volta ci fa immaginare chissà quale risvolto geniale ed appassionante per ciò che stiamo vedendo. La Mano vuol dire anche Madame Gao, personaggio a sua volta magnetico, inquietante ed affascinante al contempo. Tutte le puntate in cui La Mano muove le fila della storia sono, in effetti, godibili ed accattivanti, non fosse altro, ripeto, per quell’aspettativa che si crea nello spettatore di venire a conoscenza di chissà quale nuovo dettaglio su questa organizzazione oscura e tentacolare che sembra controllare il mondo. Notevole è anche lo spazio dedicato ai combattimenti, probabilmente il più efficace che si sia visto finora tra le serie Marvel (anche se non è che la fisicità di Finn Jones, con quei boccoli colorati da colpi di sole, quei muscoli appena accennati e quel tattoo posticcio sul petto, sia particolarmente pertinente col kung-fu et similia). Poteva essere sfruttato ed approfondito meglio il tema combattimenti illegali, che per un paio di puntate vede protagonista Colleen e che risulta avvincente per quel sottobosco di personaggi spregevoli e per quelle ambientazioni alla Tekken. Le musiche che si sentono in questa serie sono di ottimo livello ed anche la fotografia lo è per buona parte della serie, anche se potrebbe essere mal digerito quella computer grafica posticcia e surreale utilizzata per tutte le scene ambientate tra le montagne cinesi. La qualità della recitazione, invece, non è degna di nota, anzi (come forse si è intuito) la prova fornita da Finn Jones nei panni di Danny è stata tutt’altro che convincente: poche espressioni usate ed abusate, come ad esempio il sorriso da bonaccione-piacione sfoggiato ogni qualvolta sta per dire una cosa dolce, o il volto corrugato con sopracciglia inarcate di quando sta per scoppiare di rabbia. Bravo, come detto, Tom Pelphrey, tutto sommato credibile anche David Wenham (meglio non dire quale personaggio interpreta...), senza infamia né lode sia la prova di Jessica Jenwick che quella di Jessica Stroup. E’ quindi così brutto, Iron Fist? No, ma è ampiamente il più debole dei capitoli introduttivi ai Defenders, per tutti i motivi esposti in precedenza. Non potendosi dilungare sulle evoluzioni della trama (onde evitare spoiler per chi non ancora avesse intrapreso la visione di Iron Fist) ci si è soffermati su quelli che sono i punti deboli della serie, perché tanto, si sa, alla fine la vedrete lo stesso. Quindi questo è Iron Fist: “ho letto che non é il massimo, mi rendo conto che qualcosa manca ma, al diavolo, me lo vedo!”. rece by Il Merlo (in basso il trailer della serie, anche in HD!) [in collaborazione con il sito www.nerdevil.it] E’ TEMPO DI DISTRUZIONE!… no, per fortuna non stiamo parlando dell’ultimo film dei Fantastici 4, ma del vero distruttore di mondi Hollywoodiano Roland Emmerich, che torna nelle sale col sequel di uno dei suoi film più famosi: Independence Day! Dopo aver distrutto più e più volte nei suoi film il pianeta Terra, questa volta il regista tedesco, dopo 20 anni, torna su quella Terra distrutta solo in parte che riuscì a respingere un possente attacco alieno; sono passati esattamente 20 anni nel mondo reale ed altrettanti ne sono passati nella storia in questione, dove ritroviamo un mondo ucronistico che da quel lontano 1996 si è unito sotto un’unica bandiera ed ha imparato ad usare la tecnologia aliena, rendendo all’ordine del giorno viaggi sulla luna ed armi in grado di difendere il pianeta. E’ proprio da qui che parte la pellicola, con il mondo in pace e in preda ai festeggiamenti del ventennale del giorno in cui la Terra trionfò sugli invasori alieni, e con la vecchia conoscenza David Levinson (Jeff Goldblum) che viene a sapere che in Africa è custodita intatta l’unica nave aliena che riuscì ad atterrare, dalla quale partì un messaggio d’aiuto da parte degli alieni quando erano ormai vicini alla capitolazione. [FERMI TUTTI: David Levinson, uno dei principali artefici della vittoria Terrestre, che probabilmente sin dal 1996 lavora per il governo, viene a sapere dopo VENTI ANNI che in Africa c’è sempre stata una nave aliena intatta???… soprassediamo su questo.] Quel messaggio è arrivato e gli alieni stanno per sferrare un contrattacco di maggiori proporzioni del primo: questo ci permette di rivedere gran parte del vecchio cast tra cui l’ormai ex-presidente Thomas Whitmore (Bill Pullman), che ha ricominciato a fare incubi sugli invasori, e lo stravagante Dottor Okun (Brent Spiner), risvegliatosi improvvisamente dopo 20 anni di coma. [FERMI TUTTI: io ricordavo che il Dottore fosse morto in seguito ad un incontro abbastanza ravvicinato, però vabè, non ci venne mostrato nessun ecocardiogramma piatto, quindi soprassediamo al coma… ma dubito che dopo 20 anni un essere umano con i muscoli presumibilmente atrofizzati possa alzarsi da un momento all’altro dal lettino d’ospedale e riprendere le proprie attività come se non fosse passata neanche un’ora.] Pian piano, insieme al citato vecchio cast, ci vengono presentate in tipico stile Emmerich il resto delle storyline della pellicola e il resto dei protagonisti, tra cui spiccano l’astronauta/soldato Jake (Liam “fratello di Thor” Hemsworth), fidanzato con la figlia dell’ex Presidente (Maika Monroe) e Dylan (Jessie Usher), figlio del defunto Capitano Steve “Will Smith” Hiller, astronauta/soldato anche lui, in lite con Jake ma amico della ragazza. Ecco, questi sono i personaggi che meritano di essere presentati, in quanto molti altri risultano completamente inutili ai fini della storia e hanno il solo scopo di condire alcuni momenti con qualche battuta in più, ed è un peccato se si pensa che nella pellicola sono presenti nomi del calibro di Charlotte Gainsbourg e William Fichtner: la prima completamente superflua, il secondo piuttosto sprecato. Le sequenze d’azione sono inevitabilmente ben realizzate, ma mai come in questo film appaiono quasi “scopiazzate” da un film di Star Wars, fin troppo a dire il vero, con lunghe serie di battaglie aeree nelle quali da un momento all’altro si ha il sospetto che possa spuntare il Millennium Falcon. Parlando di “scopiazzature”, impossibile non citare la Sterminatrice (intravista anche nei trailer): sì avete capito proprio bene… altro non è che la versione di Emmerich della “Regina” di Cameron vista in Aliens, un alieno molto più grande, leggermente diverso e più temibile. Molte altre scene invece sono costruite col buon intento di voler ancora impressionare lo spettatore, ma immagini come la distruzione della Casa Bianca nel predecessore hanno avuto un impatto, seppur “vecchie” di 20 anni, che tutt’ora è difficile ricreare: insomma tutto molto bello e divertente, ma di certo non indimenticabile. Quello che però manca di più è il pathos nella fase cruciale della pellicola: non c’è un momento di stallo, di “crisi” di impotenza dei personaggi come ci fu 20 anni fa prima di trovare la soluzione del famoso “virus informatico”, e tutto avviene in maniera fin troppo scorrevole e naturale fino al piano finale del contrattacco terrestre. Pur regalandoci 2 ore esenti da noia, e nonostante lo sforzo fatto per elaborare interessanti trovate di sceneggiatura atte a non dirigere una copia del primo film, Independence Day: Rigenerazione non risulta altro che un dignitoso sequel di un film memorabile, che probabilmente di sequel non ne aveva bisogno, e di certo non rimarrà impresso nella memoria come il suo predecessore. Il finale aperto poi lascia intendere (incassi permettendo!) che la storia non è affatto finita qui, e lo fa introducendo un nuovissimo elemento classificabile a metà tra il “WTF?!”, il coraggioso e il pretenzioso: staremo a vedere. E' uscito in tutta Italia giovedi 14 aprile l'ultimo live action della Disney, Il Libro della Giungla! Quasi tutti conoscerete la storia, molti per il cartone del 1967, sicuramente meno per aver letto il libro di Rudyard Kipling.
Chi è il protagonista Mowgly? Oltre ad essere Neel Sethi, giovanissimo ed unico interprete “reale” della pellicola, Mowgly non sa chi è, non sa se è un lupo, una scimmia o altro... o meglio, sa di essere un “cucciolo di uomo”, ma quello degli umani non è il mondo a cui si sente di appartenere. Trovato da una Pantera Nera, Bagheera, che gli fa da mentore, allevato da un branco di lupi che tentano di educarlo come loro e protetto da entrambi; protetto dalla minaccia da chi non vede di buon occhio gli umani, da chi porta sul corpo i segni dell'esperienza avuta con gli umani, ovvero Shere Kahn. Il fantastico villain in questione è una famelica Tigre, che appare tanto maestosa e temuta quanto minacciosa e spietata; egli vorrebbe convincerci che le le sue motivazioni contro il protagonista sono valide, che questo seppur piccolo essere rappresenta la minaccia umana che tanto ha fatto e continua a fare del male al mondo animale...ma è palese anche agli occhi dei protagonisti che questo è solamente un capriccio ed un pretesto per eliminare e sbranare per pura cattiveria, chi con il mondo degli umani non ha nulla a che fare. Così il piccolo Mowgly viene convinto da Bagheera a recarsi al “villaggio degli umani”, dove potrà aver maggiore protezione, ma il viaggio non andrà come previsto...tutt'altro. Ok, perdere troppo tempo con il plot non è utile, dunque com'è questo film, bello o brutto? Questo Libro della Giungla è molto bello, difficilmente la Disney fallisce un colpo; il film mantiene un tono molto serio, “spezzato” magnificamente da uno dei personaggi che lascia il segno nel film, Baloo. Con l'ingresso in scena di Baloo, si respira aria di “Re Leone” e nello specifico di Pumba e Timon, quest' orso è la perfetta unione dei 2 personaggi: la goffaggine (e la stazza) di Pumba, la spensieratezza e astuzia di Timon, elementi che danno respiro e sorrisi alla storia. Col ricongiungimento di Mowgly, insieme a Baloo, con Bagheera, si crea questo insolito ed esilarante trio: un cucciolo d'uomo, un mentore...ed un pasticcione, ma gli eventi faranno capire a tutti, compresi noi spettatori, che tutti possono imparare da tutti. Una pantera può insegnare ad un bambino, una pantera può imparare qualcosa da un orso, e perchè no...entrambi i “grandi” possono imparare da un “cucciolo” - bellissima la sequenza con gli elefanti (…) . Se da un lato avrei voluto vedere il film in lingua originale per gustarmi le interpretazioni vocali di Ben Kingsley (Bagheera) e soprattutto di Bill Murray (Baloo), devo ammettere che questo film mi ha fatto conoscere un grande doppiatore italiano, non di professione: Giancarlo Magalli. A tratti irriconoscibile, il buon Giancarlo riesce con una voce stranamente seriosa a dare profondità ad un personaggio tanto ambiguo quanto a tratti inquietante, il gigantopiteco (che nel cartone era un orango) King Louie. In conclusione, con la sua fantastica cgi e non solo, Il Libro della Giungla risulta uno spettacolo per gli occhi; ma, tanto per essere pignoli, c'è qualcosina che avrei voluto vedere diversamente: PICCOLO SPOILER- nel film c'è una morte, che ovviamente non rivelerò: ecco, per quanto poi risulterà fondamentale ai fini della storia questa morte, avrei preferito avvenisse in maniera più “epica” o perlomeno si rendesse tragica attraverso una sequenza della durata di almeno un paio di minuti... e invece PUFF! Tutto in un attimo. Poi c'è Kaa, nei trailer ed in molti poster si vedeva solo lei, questo fantastico ed enorme pitone indiano... il tutto per...3 minuti al massimo, credo! Vabè, al termine della visione, i FANTASTICI titoli di coda mi hanno distolto da queste piccolezze... prossimo appuntamento con la Giungla, molto probabilmente nel 2018, col già annunciato sequel! |
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Gennaio 2019
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