Alla fine Iron Fist lo vedrete. Ve lo vedrete a prescindere da ciò che avrete letto qui e lì su internet, ve lo vedrete perché questa cosa dei Defenders vi intriga e non potete arrivare impreparati all’appuntamento, oramai imminente. Ve lo vedrete perché c’è stato un momento, un momento che collocherei tra la prima e la seconda stagione di Daredevil, in cui l’intreccio targato Marvel ha veramente alzato oltremisura l’asticella delle aspettative, facendoci pensare di essere dinanzi ad un capolavoro in divenire. Iron Fist, però, non è una grande serie, inutile girarci troppo intorno. Premessa: non sono un fedelissimo Marvel. Sono uno di quelli che sì, si vedono qualcosa ogni tanto, sì, è fatto bene, sì, ok, ma non è che vado a leggermi i fumetti e a rispettare con rigore l’ordine cronologico dei vari X-Men o Avengers di turno. Questa premessa è necessaria perché i fan “a prescindere” ridimensioneranno ogni critica che mi appresto a fare, un po’ per amore cieco, un po’ perché tanto ogni incongruenza o lacuna di un prodotto Marvel la andranno a colmare e a giustificare con “eh, nel fumetto ti fa vedere che…” Il punto di forza del quartetto di serie Marvel che ci viene proposto da Netflix dovrebbe essere proprio questo: offrire un prodotto complesso, sfaccettato ma coerente ed auto-esplicante. Se le cose vengono fatte per bene io, spettatore-medio, capisco ed apprezzo ogni cosa senza dover andare a sfogliare l’immensa enciclopedia Marvel per ottenere chiarezza. Ma veniamo alla storia che ci viene proposta. Iron Fist racconta la vicenda di Danny Rand (Finn Jones), piccolo rampollo di una famiglia multimilionaria che possiede una multinazionale dalle risorse illimitate (chiamata, come è ovvio, “Rand”), gestendo la stessa in tandem con la famiglia Meachum. Tra il piccolo rampollo destinato a ricchezza senza limiti e il Danny Rand che ci viene presentato nella prima puntata della stagione (scalzo, sporco e con un sorriso abbastanza da ebete) intercorrono 15 anni di vuoto (che tale rimarrà, ahimé). Questo perché Danny, quando era ancora un bambino, è rimasto vittima di un incidente aereo avvenuto per cause ignote mentre il jet di famiglia sorvolava le montagne dell’Himalaya. Mentre i suoi genitori perdono la vita, Danny viene soccorso da due monaci tibetani, che lo conducono a K’un-Lun (…un villaggio?) e lo addestrano affinché egli possa combattere La Mano. Nel corso del suo annoso tirocinio presso i monaci guerrieri, Danny diviene l’Iron Fist (come? Perché?), una sorta di guerriero dei guerrieri, di eletto, di entità divina. Ma cosa può fare l’Iron Fist? Il suo potere, derivante dal suo “Chi” (eh?), consiste in una sorta di pugno dalla consistenza dell’acciaio e dalla forza incredibile. Va detto che, dopo aver visto il buon Luke Cage affrontare eserciti e tonnellate di piombo uscendosene giusto con qualche maglietta bucherellata, il “superpotere” dell’Iron Fist appare alquanto fiacco e poco caratterizzante, ma vabbè. Già muovo la mia prima critica: come posso appassionarmi alla storia di un personaggio, se nei suoi flashback tutto ciò che vedo è il momento in cui il jet precipita (una volta, due volte, tre, abbiamo capito, ma dopo 15 anni questo ragazzo non pensa ad altro?), o al limite qualche seduta meditativa sul pizzo di una montagna? Cos’è “K’un-Lun”? Perché La Mano vuole attaccarla? Perché l’Iron Fist ha modo di “nascere” solo in quel posto? Perché Danny è sopravvissuto? Esiste realmente il “drago” di cui ad un certo punto si parla? Che si intende quando viene detto che “il passaggio per K’un-Lun è aperto”? A tutte queste domande non riceverete alcuna risposta nel corso delle 13 puntate di questa stagione. Nessuna, zero, nada. Forse questo alone di mistero ha un qualche motivo che non mi è dato conoscere, ma quello che so è che questa prima stagione aveva proprio il compito di introdurmi il personaggio principale, mentre su quei quindici anni di addestramento non c’è alcun approfondimento, anzi, lo stesso personaggio sembra rimuovere in fretta una vita di addestramento quando alle prime provocazioni del villain di turno inizia a dare di matto e a perdere il controllo. Comunque, tornando alla trama, il problema che per primo Danny si trova ad affrontare ritornando a New York è quello di dover convincere qualcuno del fatto che lui sia davvero lui, dato che, come è chiaro, tutti lo danno per morto. Farà quindi i salti mortali per convincere i suoi “fratellastri” Ward e Joy circa la sua sincerità, trovando ostacoli soprattutto per causa di Ward, che dopo la morte di Harold Meachum (padre di Ward e Joy e socio originario del padre di Danny) è il “ragazzo d’oro” che tiene le redini della floridissima multinazionale e teme un ritorno al timone della famiglia Rand. Ward (Tom Pelphrey) è probabilmente il personaggio migliore della serie: elegante, cinico, astuto ma al contempo infantile e nevrotico, regge bene il ruolo di villain nella prima parte di stagione, per poi essere rimpiazzato da altri (ne ho contanti almeno altri 3) nel ruolo di cattivo principale. Purtroppo, andando avanti, lo stesso Ward degraderà a personaggio secondario e diventerà anch’egli un personaggio alquanto monocorde ed elementare nella caratterizzazione. Già, perché personalmente è questo quello che meno mi è piaciuto di questa serie: la caratterizzazione dei personaggi. Sono tutti, davvero senza eccezioni, monodimensionali, stereotipati, o buoni o cattivi. Abbiamo, quindi, i buoni a prescindere (Danny, Colleen, Joy, Claire) e i cattivi incorreggibili (Ward, Gao e gli altri non posso svelarveli), e le evoluzioni in questo senso saranno praticamente nulle. Danny è stato il protagonista Marvel/Netflix con cui ho empatizzato meno: piatto, sempliciotto, umorale, infantile, in tredici puntate praticamente riesce solo ad oscillare tra i due poli, uno positivo, che lo fa essere virtuoso e non gli fa mai avere il minimo dubbio (“devo sconfiggere la Mano!”), l’altro, negativo, che lo fa essere rabbioso e piuttosto stupido e prevedibile (“chi ha ucciso mamma e papà?”). Colleen Wing (Jessica Henwick), l’umile ragazza asiatica che gestisce un dojo e che per prima dà ospitalità ed aiuto a Danny, è il perfetto alterego di quest’ultimo: ingenua, pura, animata da buoni sentimenti, ci metterà però giusto il tempo di qualche minuto per rinnegare l’educazione che per anni ed anni ha ricevuto, il tutto in nome dell’amore e della prevedibilità. Joy Meachum (interpretata dalla bella Jessica Stroup), altra figura femminile di spicco, è invece divisa tra sentimentalismo e cinismo, tra fiducia e diffidenza, tra valori nobili e bieco arrivismo, ragion per cui ora appare essere la “buona” di casa Meachum, ora invece la sua esponente più emblematica. Quello che però attraversa Joy non è un dualismo ben articolato, sottile e credibile: no, semplicemente questo personaggio cambia da un momento all’altro, va ad intermittenza, si comporta all’opposto di come ti aspetteresti ogni volta che credi di averlo finalmente inquadrato. L’esempio più lampante di ciò, lo vedrete, si rinviene nell’ultima scena della serie. Quanto a Claire Temple (Rosario Dawson), il collante di tutti i Defenders, anche lei è stata travolta dalla frettolosa caratterizzazione dei personaggi in Iron Fist: i suoi connotati tipici, ricorrenti tanto in Luke Cage quanto in Daredevil e Jessica Jones, qui arrivano all’estremo, diventano qui quasi macchiettistici, esasperati e poco credibili (mi viene in mente, ad esempio, la tendenza alla battuta sagace nei momenti di massima tensione, o l’atteggiamento rassegnato di chi, tanto, le ha viste tutte). Il personaggio più emblematico della caratterizzazione rozza dei personaggi di questa serie è, in ogni caso, il grottesco Davos: proprio quando ti aspetti un guerriero solido, risoluto, intelligente e carismatico, ecco che ti ritrovi un ragazzino complessato e fondamentalmente stupido, che ripete come un pappagallo le cose che gli sono state inculcate. Ma hai 30 anni, caro mio, datti una svegliata e conosci il mondo! Dal quadro catastrofico che ho appena tratteggiato voglio però escludere Jeri Hogarth (la Carrie-Anne Moss di matrixiana memoria), che riesce ad essere sé stessa anche qui, anche se stona il fatto che un personaggio così cinico e materialista sia il primo a dar credito a Danny Rand circa la sua identità (mentre Joy ha dovuto aspettare un pacchetto di M&M’s per riconoscere l’amichetto con cui è cresciuta). Elencati i difetti, occorre però anche capire cosa spinge a chiudere un occhio e ad andare avanti nella visione di questa serie: la mia risposta è “La Mano”, cioè quest’entità malefica che già ci ha tenuti incollati allo schermo in Daredevil e che ogni volta ci fa immaginare chissà quale risvolto geniale ed appassionante per ciò che stiamo vedendo. La Mano vuol dire anche Madame Gao, personaggio a sua volta magnetico, inquietante ed affascinante al contempo. Tutte le puntate in cui La Mano muove le fila della storia sono, in effetti, godibili ed accattivanti, non fosse altro, ripeto, per quell’aspettativa che si crea nello spettatore di venire a conoscenza di chissà quale nuovo dettaglio su questa organizzazione oscura e tentacolare che sembra controllare il mondo. Notevole è anche lo spazio dedicato ai combattimenti, probabilmente il più efficace che si sia visto finora tra le serie Marvel (anche se non è che la fisicità di Finn Jones, con quei boccoli colorati da colpi di sole, quei muscoli appena accennati e quel tattoo posticcio sul petto, sia particolarmente pertinente col kung-fu et similia). Poteva essere sfruttato ed approfondito meglio il tema combattimenti illegali, che per un paio di puntate vede protagonista Colleen e che risulta avvincente per quel sottobosco di personaggi spregevoli e per quelle ambientazioni alla Tekken. Le musiche che si sentono in questa serie sono di ottimo livello ed anche la fotografia lo è per buona parte della serie, anche se potrebbe essere mal digerito quella computer grafica posticcia e surreale utilizzata per tutte le scene ambientate tra le montagne cinesi. La qualità della recitazione, invece, non è degna di nota, anzi (come forse si è intuito) la prova fornita da Finn Jones nei panni di Danny è stata tutt’altro che convincente: poche espressioni usate ed abusate, come ad esempio il sorriso da bonaccione-piacione sfoggiato ogni qualvolta sta per dire una cosa dolce, o il volto corrugato con sopracciglia inarcate di quando sta per scoppiare di rabbia. Bravo, come detto, Tom Pelphrey, tutto sommato credibile anche David Wenham (meglio non dire quale personaggio interpreta...), senza infamia né lode sia la prova di Jessica Jenwick che quella di Jessica Stroup. E’ quindi così brutto, Iron Fist? No, ma è ampiamente il più debole dei capitoli introduttivi ai Defenders, per tutti i motivi esposti in precedenza. Non potendosi dilungare sulle evoluzioni della trama (onde evitare spoiler per chi non ancora avesse intrapreso la visione di Iron Fist) ci si è soffermati su quelli che sono i punti deboli della serie, perché tanto, si sa, alla fine la vedrete lo stesso. Quindi questo è Iron Fist: “ho letto che non é il massimo, mi rendo conto che qualcosa manca ma, al diavolo, me lo vedo!”. rece by Il Merlo (in basso il trailer della serie, anche in HD!)
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Gennaio 2019
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